Sebbene il 2014 si sia chiuso con la positiva notizia del disgelo tra Cuba e Stati Uniti d’America, che apparentemente mette fine all’ultimo retaggio della Guerra Fredda (Nord Corea escluso) ciò non toglie che il Centro e il Sud del Nuovo Continente assistano, ora più che mai, al travaglio di una gestione politica ed economica irta di contraddizioni. Una gestione che il New World Order, made in USA, cerca di utilizzare, ai fini di riprendere il terreno perduto nel decennio passato; un lungo periodo, durante il quale molte delle sue colonie virtuali hanno cercato di emanciparsi.
Contro-rivoluzione a Caracas
Il Venezuela ha aperto le danze: e non poteva essere altrimenti, dopo gli eventi che hanno fatto seguito alla morte del suo Lìder Màximo, Hugo Chàvez.
Le violente rivolte scoppiate a febbraio, e prolungatesi fino ad aprile, provocando una cinquantina di vittime, hanno esposto a livello internazionale la crisi post-mortem che il successore di Chàvez, Nicolàs Maduro, non è stato in grado di fronteggiare. I problemi più gravi sono legati all’inflazione selvaggia, la più alta americana, che ha toccato picchi del 65% negli ultimi mesi. Il cambio troppo basso tra dollaro e moneta del Paese, il Bolivar (1 USD = 6,35 VEF) non rispecchia il reale valore, e il mercato nero la fa da padrone, incrementando l’inflazione. Il PIB (Producto Interno Bruto, il nostro PIL) è crollato dal 5.5% a 1.6% con un picco di oltre 11% del deficit nazionale.
La mazzata finale, che ha costretto la riduzione dei finanziamenti al welfare sociale, è stato il calo del prezzo del crudo, colpendo gli introiti di Petròleos de Venezuela, la compagnia statale in regime di monopolio che controlla il mercato dell’oro nero. Il Venezuela oscilla tra la terza e la quarta potenza dei Paesi aderenti all’OPEC; le sue esportazioni continuano a dirigersi verso il Nord America, malgrado il pessimo rapporto che Chàvez aveva con l’amministrazione USA, accusata di aver orchestrato il fallito colpo di Stato del 2002. Costei mira a sfruttare la crisi del Bolivarismo, e le rivolte al sistema, per riprendersi il controllo del prodotto nazionale. Una necessità resa urgente, dall’invasione ISIS lungo Iraq e Siria, che intacca le conquiste del 2° conflitto iracheno, e la perdurante ostilità iraniana.
Quello del 2014, è un quadro molto simile al 2002, illustrato da John Perkins, l’ex manipolatore di dati economici della CIA, che ha scritto un libro-confessione sui fatti di allora. Anche oggi, l’opposizione è divisa, tra l’ortodosso Henrique Capriles, più aperto al dialogo con Maduro, e il duo Lopez-Machado, accusati di aver organizzato le rivolte per conto di Washington.
Lopez è ancora in carcere, sotto la pesante accusa di terrorismo. Nel 2002, centinaia di migliaia di venezuelani, tra cui 30.000 lavoratori petroliferi, invasero le piazze, come nei primi mesi di quest’anno. Anche allora, una delle cause fu il crollo dei prezzi del petrolio. E la CIA orchestrò le manifestazioni. Maduro ha ripreso il controllo degli operai della compagnia statale, raddoppiando il loro salario; ma la tregua è solo temporanea.
Ironicamente, la ripresa dei rapporti USA-Cuba, minaccia da vicino il trattato commerciale dell’ALBA (Alìanza Bolivariana para América Latina) nato in funzione anti-americana, che ebbe i suoi fondatori in Chàvez e Fidel Castro, con la partecipazione di Correa in Ecuador e Morales in Boliva, oltre al Nicaragua e piccoli stati caraibici.
Il socialismo atipico di Correa e Morales
Il 23 febbraio si sono svolte in Ecuador le elezioni amministrative per il rinnovo delle Prefetture e i Concejos Municipales (giunte comunali) con relativi sindaci. Il partito del Presidente Correa, Alianza Pais, pur mantenendo il controllo della maggioranza delle prefetture, ha perso i municipi-chiave di Quito, la capitale, Guayaquil, la città più popolosa del Paese, e Cuenca, patrimonio culturale ecuadoriano. Anche l’arcipelago delle Galàpagos, che contribuisce per almeno un terzo al PIB turistico, ha confermato i suoi sindaci, candidati storici dell’opposizione. Oggi il Partido Oficialista controlla il Municipio più importante, quello di Quito, dove le riforme di Correa avevano inciso in maniera profonda, soprattutto a livello sicurezza e programmi sociali.
Rafael Correa Delgado, vincendo regolari elezioni nel 2006, salì al governo l’anno successivo, ereditando una nazione allo sfascio, con un tasso di povertà vicino al 70%, un controllo statunitense sull’estrazione del petrolio pari al 75%, e gli interessi passivi sul debito estero, acceso con FMI e Banca Mondiale, che minacciavano il default. La sua prima mossa fu declinare un nuovo prestito, dichiarando illegali i bonds di debito, accesi dal Governo precedente, minacciando così la bancarotta dello Stato; i titoli, crollati in Borsa, furono ricomprati dal Tesoro a solo il 35% del loro valore di emissione.
Il Paese si liberò del fardello del debito pubblico, un escamotage che iscrisse Correa nella lista nera della finanza internazionale.
Nel 2012, grazie alla riforma fiscale, che prevede un contributo obbligatorio da parte delle banche al Bono de Desarrollo Humano, Correa riuscì a garantire un aiuto alle pensioni di cittadini a basso reddito, e alle donne single con figli a carico. Il suo fiore all’occhiello, fu quello di riversare oltre la metà dei proventi derivanti dall’estrazione del petrolio, che intanto aveva visto la Cina sostituire gli Stati Uniti come partner di riferimento, in programmi sociali come i Centros Contra Violencia Intrafamiliar y Sexual, che combatte piaghe quali El Feminicidio, tipiche dell’America Latina.
Programmi a rischio, con il cambio di amministrazione.
A differenza di Chàvez, Correa è riuscito a coniugare controllo statale con imprenditoria privata, mantenendo un governo democratico, garantito da regolari elezioni, sebbene la stampa di opposizione lo faccia regolarmente a pezzi, causa le condanne per calunnia che egli è riuscito ad ottenere a danno di diversi giornalisti in sede giudiziaria.
Questo fattore rischia di minare il suo mandato; oltre l’eccessiva dipendenza dai prestiti cinesi, che deve ricambiare con lo sfruttamento indiscriminato del sottosuolo amazzonico. Le veementi proteste delle etnie indios, che si battono per proteggere la riserva naturale di Yasunì, lo espongono alle critiche dei media. Il percorso è ancora lungo, il termine scade nel 2017.
A ottobre, Evo Morales è stato confermato per la terza volta Presidente della Bolivia con oltre il 60% dei consensi. Il primo presidente indigeno nella storia del Paese, ha un curriculum di tutto rispetto, maturato durante oltre otto anni di governo, in una delle nazioni più povere del Sud-America.
La crescita economica, che ha sfiorato il 7% del PIB, la lotta all’analfabetismo, disoccupazione al 6%, il salario minimo 4 volte quello precedente il suo mandato, la nazionalizzazione delle risorse naturali, quali il gas, strappandole al controllo statunitense, sono fattori determinanti ai fini della sua popolarità. Permangono dubbi sulla solidità dell’impianto democratico a lunga scadenza, considerando la possibile modifica costituzionale, che sancirebbe formalmente l’abolizione del limite di due mandati presidenziali. Al momento non si vede un’alternanza possibile, sia a livello di popolarità e di efficienza.
Il lavoro minorile rimane comunque una tara nazionale.
Argentina, default a orologeria
Sembra quasi una fattura a orologeria; ogni 13 anni del Nuovo Millennio, l’Argentina precipita in una crisi finanziaria, che, se nel 2001 la portò a un default pieno, quest’anno la tiene sospesa sul ciglio del burrone.
Wall Street è passata all’incasso, esigendo a luglio il pagamento dei vulture-funds fondi avvoltoio, gli hedge funds nord-americani che hanno investito sul secolare debito argentino, comprando i bonds, per riscattarli a scadenza con larghi interessi a credito. “Nothing personal, just business” sembrano recitare i sicari finanziari, ma in verità la faccenda è molto personale per il popolo argentino, che ancora una volta si trova a pagare salato la scriteriata strategia economica dei suoi leader di turno; Cristina de Kirchner, la presidente-avvocato, ammirabile per la riduzione della povertà del Paese, passata in tre anni da 21 a 11%, e per il contributo all’istruzione pubblica, ha però preso di petto i TIR statunitensi, con il risultato che ne consegue. Il suo rifiuto di pagare il debito pubblico, ha causato il declassamento del rating argentino a CCC e l’allontanamento degli investitori internazionali. L’inflazione è schizzata al 30%, e rischia di innescare un effetto domino con gli altri debiti esteri, che farebbe fallire di nuovo la Nazione. La sua alleanza politica con un altro Paese che cammina sul filo del rasoio, il Venezuela, indispone ulteriormente la finanza liberista di marca USA, la quale aspetta, come il sopracitato uccellaccio, che il morituro tiri le cuoia. La tattica della Señora Cristina è la stessa di Fabio Massimo: temporeggiare fino a gennaio 2015, quando la clausola che implica il rito abbreviato per gli altri Stati creditori, decadrà. Ormai questione di giorni; della serie: “A pagare e morire c’è sempre tempo”.
L’incognita Brasile
Lo stillicidio del doppio turno nel corso delle elezioni presidenziali brasiliane 2014, iniziato il 5 ottobre, e terminato il 28, ha infine visto la delfina dell’ex-presidente Lula, Dilma Rousseff, vincere al fotofinish, dopo una campagna elettorale tutt’altro che brillante. Per sua fortuna, il Piccolo Grande Vecchio, è sceso in campo nei minuti di recupero, e il suo carisma, unito ai voti degli indecisi che si erano astenuti al primo turno, ha garantito alla sua pupilla quei tre milioni di voti extra, sufficienti a portare a casa il golletto di differenza. Un’inezia, su una popolazione che sfiora i 200 milioni.
Una vittoria di Pirro, però; il PSDB di Aécio Neves, ha già annunciato che farà ostruzione continua in Parlamento, allo stato attuale infarcito di benpensanti, militari, pastori evangelisti omofobi, e quant’altro serva all’opposizione, che rappresenta oggi quasi la metà del Paese. Nel trasformismo brasiliano, che ha visto icone del conservatorismo classico assurgere al ruolo di riformisti, tutto è possibile; sta di fatto che i fasti collettivi, conseguenza del sontuoso PIB negli anni del Lulismo migliore, sono finiti; non è un caso se nel corso del primo mandato Rousseff, dal 2010 al 2014, la crescita sia diminuita, portando il Paese in un ranking inferiore, dal 35° al 55° posto negli indici internazionali.
Le cause vanno ricercate nella competizione perdente con la Cina riguardo export dei manufatti, per i prezzi stracciati che il gigante di Pechino può sostenere, e tra gli scandali che hanno costellato il PT (Partido Trabalhadores) culminati con quello della PetroBras, il Moloch che monopolizza l’estrazione nazionale del petrolio, sul quale molti piccoli risparmiatori avevano investito, modello Parmalat.
Il ritorno alla dicotomia ne è la conseguenza, che ha separato per decenni la popolazione, con quel 20% rappresentato da imprenditori rampanti, immobiliaristi e politici, in prevalenza di razza bianca, sul podio più alto della scala sociale, e tutti gli altri, classe media indebitata fino al collo e proletariato delle favelas, distaccati nei gradini inferiori. Una tendenza che si era attenuata durante i due mandati di Lula, permettendo al ceto medio di emergere, e alla working class di vivere più decentemente, grazie a l’indipendenza energetica e l’accesso generalizzato ai consumi, consentito da un costo della vita ragionevole. Negli ultimi anni i prezzi dei beni primari sono raddoppiati, e il livello dell’assistenza sanitaria pubblica e istruzione di Stato scaduto, lasciando campo aperto a quel liberismo economico delle finanziarie, che hanno privatizzato ospedali, scuole e trasporti, allargando la forbice del potere d’acquisto e contraendo i consumi medi.
La ciliegina sulla torta è costituita da un razzismo strutturale, che relega afro-brasiliani, indios, e meticci al livello di paria urbani, sui quali la polizia infierisce costantemente, macchiandosi di omicidi extra-giudiziari, basati sul colore della pelle. Il Paese attende una boccata d’ossigeno dalle Olimpiadi 2016, ma dovrebbe prima emanciparsi da questo sistema a caste, foriero di rivolte sociali.
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Se la strombazzata ripresa dei rapporti Cuba-Stati Uniti darà seguito a cambiamenti sostanziali nel modus operandi delle due nazioni, lo sapremo presto; la prova del nove è quel Congresso che troppe volte, nel corso dei due mandati di Obama, ha cercato di sabotare riforme strutturali, come l’Obamacare che mira ad estendere a tutti i cittadini statunitensi l’assistenza sanitaria.
I due leader stanno beneficiando di un ritorno, in termini d’immagine, storico.
Il fratello di Fidel, Raul, può giustamente rivendicare, dopo aver allentato i vincoli dello statalismo 4 anni fa con l’apertura alla piccola imprenditoria privata, sancita dal licenziamento di circa 500.000 dipendenti, una visione politica adeguata ai tempi che cambiano. Obama, dal canto suo, lasciare alla fine del suo mandato un’eredità epocale, quella di aver messo fine a 53 anni di embargo, che farebbe il paio con l’uccisione di Osama bin Laden.
Molte tappe devono esser ancora percorse; per ora si è trattato di uno scambio di prigionieri, che ha concesso la libertà ad Alan Gross, il consulente informatico, reo di aver importato tecnologia nell’arretrata isola caraibica, condannato a 15 anni. Cuba è sull’orlo del collasso economico, dovuto all’embargo e a un’avida burocrazia statale, che succhia le ampie risorse di un turismo internazionale. Il suo collegamento alla rete è obsoleto, complice anche la censura politica che controlla la cittadinanza. L’opposizione al castrismo è confinata a blogger come Yoani Sànchez, e molti dissidenti sono ancora in galera.
L’America, malgrado una innegabile ripresa economica, è ancora invischiata in un razzismo che continua a mietere vittime tra i neri e in un sistema finanziario in mano alle solite corporations, che fremono per rimettere le mani sulle bellezze dell’ isla bonita. Aldilà dell’operazione di cosmetica, i cambiamenti reali saranno sanciti solo dalla rinuncia a questi presupposti incivili.