Se c’è qualcosa di davvero urgente per il governo nazionale, questa è, a mio avviso, una riforma radicale della pubblica amministrazione che, da troppo tempo, dopo i tentativi per molti aspetti notevoli, dei tentativi di personalità indiscusse come, in successione di tempo, Massimo Severo Giannini, Franco Bassanini e Sabino Cassese, è stata di fatto abbandonata dai governi, hanno dovuto subire più di altri il rovinoso ventennio populista (da cui, lasciatemelo dire, stiamo uscendo lentamente e con difficoltà ricorrenti),negli ultimi tempi è stata percepita più come un fardello che come una risorsa e per questa ragione abbandonata a sé stessa. Negli ultimi tempi, io che nell’Amministrazione dello Stato, ho svolto in gran parte la mia carriera, prima da studente, poi da professore fino ad essere per molti anni preside di una grande Facoltà di Lettere e Filosofia, ho pensato spesso all’urgenza della riforma e alle difficoltà di realizzarla. Urgenza indiscussa perché qualunque altra riforma nel nostro Paese non può realizzarsi se l’amministrazione pubblica è nelle condizioni attuali(e ne parleremo, sia pure in maniera rapida) e perché se non si interviene là, qualunque altro sforzo per la modernizzazione nazionale rischia di fallire clamorosamente. E questo è stato confermato ancora una volta con le ultime riforme tentate. Iniziative, come ha notato da ultimo un grande esperto come Guido Melis, perché inquadrate “in un tempo ristretto, condizionate dalla instabilità dei governi, dall’assenza di visioni bipartisan della riforma e, in definitiva, dalla “solitudine” del riformismo amministrativo” e quindi “isolati nel contesto politico e sociale del momento”. I responsabili sono stati, senza dubbio alcuno, la classe politica, nel suo complesso, e che più volte ha strumentalizzato l’arretratezza burocratica nell’ambito di un patto scellerato con la burocrazia per finalità elettorali o comunque di consenso e l’opinione pubblica, incapace, al di fuori di poche èlite circoscritte, di comprendere e sostenere consapevolmente la modernizzazione dell’amministrazione. “Cioè di fatto-conclude a ragione Melis-negli oltre 150 anni della storia postunitaria sono mancate una politica e una cultura diffusa della riforma amministrativa. Bisogna, scrive ancora Melis e sono d’accordo con lui, cambiare la bussola e puntare sulla “revisione dei modelli organizzativi e sulla messa in soffitto del formalismo”: semplificazione, decentramento di funzioni, attribuzioni di missioni precise e non più di competenze generiche, premi ai migliori con valutazioni puntuali, responsabilizzazione di chi dirige.” In effetti questa volta ci sono due potenti fattori esterni che giocano a favore della riforma: il primo è la costruzione dell’Europa politica ed istituzionale accanto a quel la economica; il secondo fattore positivo è la rivoluzione tecnologica (l’avvento cioè dell’universo globale rappresentato dalla Rete).Se questo avverrà – è ormai evidente – il formarsi della decisione amministrativa assumerà un carattere di contestualità e di coincidenza nei tempi ignota al precedente modo burocratico di lavorare. Se guardiamo alla nostra storia passata, possiamo tener conto che, pur con tutti i problemi già denunciati, la pubblica amministrazione è stata importante per il nostro Paese. Decisiva nei decenni successivi alla unificazione nazionale e nel periodo giolittiano, del primo decollo industriale, importante anche nel periodo fascista negli anni della crisi degli anni Trenta con la creazione degli enti economici e importante per la ricostruzione del Paese dopo la seconda guerra mondiale. Se questo è storicamente vero, le possibilità esistono ma saranno parlamento e governo, e in definitiva gli italiani a decidere se questa ci sarà una riforma efficace o si andrà avanti come il solito, con gravi danni per lo Stato e soprattutto per i più deboli e più poveri, come sempre.