Il 15 novembre è prevista la conclusione della consultazione sul progetto governativo di grande riforma della scuola italiana, pubblicato il 15 settembre e reclamizzato come la “buona scuola” di Matteo Renzi. Un’intitolazione auto celebrativa che cancella, appropriandosene, un altro progetto di riforma complessiva del sistema scolastico, sorto con una proposta di legge di iniziativa popolare “per una buona scuola per la Repubblica”, frutto di un’elaborazione collettiva di insegnanti genitori ed esperti, che nel 2006 fu presentato alle Camere e successivamente riproposto come iniziativa legislativa da numerosi parlamentari.
Il progetto del governo Renzi, espresso attraverso un documento di 136 pagine, si appropria del tema della “buona scuola”, ma fa cadere pudicamente il riferimento alla Repubblica. E fa bene, perché in esso non vi è alcun riferimento ai valori repubblicani, cioè ai principi costituzionali che devono ispirare il sistema educativo di istruzione statale, che fanno si, per dirla con Calamandrei, che la scuola sia un organo costituzionale, ovvero la principale istituzione attraverso la quale si realizza la missione della Repubblica, scolpita nell’art. 3, secondo comma della Costituzione, di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economia e sociale del paese”.
Non v’è dubbio che la scuola della Repubblica – come richiede la proposta di legge di iniziativa popolare – debba essere finalizzata alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, alla formazione del cittadino e della cittadina, all’acquisizione di conoscenze e competenze utili anche per l’inserimento nel mondo del lavoro, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno/a, secondo i principi sanciti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.
Nella buona scuola di Matteo Renzi si parla di tante cose, sono agitati i temi ordinamentali ed i temi didattici, vengono richiamati educatori come Montessori, don Milani, don Bosco e Malaguzzi, ma sarebbe difficile trovare parole come pluralismo, laicità, libertà d’insegnamento, uguaglianza. Il problema è che attraverso una cascata di retorica sull’importanza ed il valore della scuola come investimento del paese su se stesso, come strumento per lo sviluppo dell’Italia e la qualità della democrazia, vengono messi in opera tanti veli per nascondere l’impostazione di fondo che guida questo progetto di innovazione.
L’impostazione di fondo è quella di valorizzare un concetto – di per sé positivo – come quello dell’autonomia scolastica, piegandolo ad una logica di mercato, dominata dall’ideologia della competizione. Dietro tanto fumo, infatti, le uniche misure concrete annunciate riguardano lo status giuridico degli insegnanti. L’ideologia della competizione viene instillata nel corpo dei docenti attraverso l’introduzione di un nuovo criterio di progressione della carriera degli insegnati, non più basato sull’anzianità di servizio, come fin’ora è stato, ma sulla valutazione delle attività svolte da ogni docente.
In pratica il sistema della progressione dello stipendio basato sugli scatti di anzianità, sarà sostituito da un sistema di progressione fondato sugli “scatti di competenza”. La valutazione sarà basata sui crediti che ogni docente avrà accumulato nel triennio. Tali crediti saranno di tre tipologie: crediti didattici, ottenibili in base alla qualità dell’insegnamento in classe, crediti formativi, ottenibili tramite i corsi di aggiornamento, crediti professionali, ottenibili ricoprendo ruoli quali quella del coordinatore di classe o le funzioni strumentali, o attraverso le attività progettuali.
Orbene il fatto di affidare la progressione in carriera ad un criterio basato su uno scrutinio sul merito, piuttosto che su quello oggettivo dell’anzianità, di per sé non può essere respinto, ma nel progetto Renzi-Giannini, questo criterio è un cavallo di troia per introdurre un elemento fortemente destabilizzante nella comunità scolastica: la concorrenza fra gli insegnanti per guadagnare lo scatto di competenza. Il progetto prevede che ogni tre anni i due terzi dei docenti di ogni scuola (o rete di scuole) riceveranno uno scatto di progressione di 60 euro netti mensili, chiamato scatto di competenza, mentre il restante 33% non avrà nulla. Gli insegnanti ai quali attribuire l’aumento saranno selezionati da un Nucleo di Valutazione interno alla scuola, nel quale – per forza di cose – giocherà un ruolo centrale il dirigente scolastico.
In questo modo si romperà la – pur sempre precaria – armonia della comunità scolastica. Tutti gli insegnanti saranno messi in competizione fra di loro. Alcuni dovranno prevalere ed altri dovranno necessariamente soccombere e ciascuno avrà necessità di farsi apprezzare, più degli altri, dal dirigente scolastico e dai collaboratori di questi. Questo nuovo sistema stimolerà il servilismo ed il conformismo, favorirà la gestione burocratica ed autoritaria del corpo insegnante e finirà, inevitabilmente per incidere anche sulla libertà d’insegnamento, che sarà condizionata dalle aspettative di carriera.
Il paradosso è che il progetto Renzi-Giannini annuncia una drastica “sburocratizzazione” della scuola ma in concreto instaura un meccanismo infernale di burocratizzazione. Basti pensare al fatto che ogni tre anni circa 700.000 insegnanti dovranno essere sottoposti al vaglio di migliaia di nuclei di valutazione interni alle scuole, che per legge dovranno emettere un verdetto negativo per almeno 234.000 insegnanti, i quali, inferociti, proporranno migliaia di ricorsi al Tar, ed i dirigenti scolastici dovranno impiegare la gran parte del loro tempo fra ispezioni, relazioni, carte bollate e tribunali, in un clima di ostilità permanente.
In questo modo nella comunità degli educatori viene introdotto un principio fortemente antieducativo che riproduce nello spazio scolastico l’ aspetto più meschino della vita aziendale, quello della lotta di tutti contro tutti per accaparrarsi i premi di produzione. Questa è una scuola-azienda, non è certo la scuola della Repubblica! Del resto questa concezione “aziendale” del bene pubblico dell’istruzione è tanto più allarmante in quanto si tratta di un tassello di un più vasto disegno strategico nel quale rientra la progressiva demolizione delle garanzie del lavoro, la compressione dei corpi intermedi (a cominciare dai sindacati), l’erosione della rappresentanza e dei poteri del Parlamento attraverso le riforme costituzionali ed elettorali; tutti elementi che guidano la trasformazione in atto da un’economia sociale di mercato ad una società di mercato.
Senonchè la logica delle istituzioni educative non può essere assoggettata alla logica del mercato dove tutti competono per accaparrarsi delle risorse scarse. Ci sono degli spazi pubblici che devono restare fuori dal mercato e dalle sue dinamiche. Per questo è importante raccogliere l’occasione offerta dal dibattito sulla buona scuola per aprire un vero confronto politico di merito sul tema della riforma delle istituzioni scolastiche, demistificando le favole propugnate nel progetto renziano, e rimettendo in gioco le proposte di una “buona scuola per la Repubblica”.