L’assoluzione pronunciata dalla corte d’appello oltre che una clamorosa ammissione di incapacità della giustizia nel far luce sulle cause della morte di un cittadino sotto custodia dello Stato, a meno che non si sposi la tesi del suicidio, riporta in prima pagina un pregiudizio culturale e politico che continua a prevalere nell’opinione pubblica. “Stefano Cucchi in fondo era un tossico, se l’è cercata, aveva commesso un reato, se fosse stato onesto non sarebbe morto”. Dietro il pregiudizio, ampiamente condiviso anche da indignados dell’ultima ora e sindacati di polizia, ci sta la radicata convinzione che “se un uomo sbaglia i cocci sono suoi”, che “il carcere è in fondo un luogo di punizioni a volte imprevedibili ma giustificate”, che “la pena è una vendetta dello Stato e non un diritto ad un’opportunità di riscatto”. Se un soggetto è debole, in una condizione di fragilità fisica e psicologica, perchè drogato, ubriaco, confuso, un rappresentante della forze dell’ordine deve avere nei suoi confronti più cautele e attenzioni e riunciare ad atti preventivi o ritorsivi di violenza.
L’uso della forza in questi casi è una condotta aggravante, non un’attenuante. Questo principio, sancito in molti paesi europei che al contrario dell’Italia hanno introdotto nel loro ordinamento giuridico il reato di tortura, avevamo sperato fosse in qualche modo accolto di fatto nella cultura di questo paese. La sentenza definitiva di condanna sulla morte di Federico Aldrovandi costituiva un importante precedente. Ci eravamo illusi. La sentenza Aldrovandi resta l’unica in cui questo principio è stato applicato. A Ferrara quattro agenti, per altro ancora in divisa, oggi si chiedono perchè solo loro sono finiti condannati, mentre negli altri casi gli unici colpevoli assodati sono le vittime. Cucchi è in buona tragica compagnia: Bianzino, Casalnuovo, Ferrulli, Uva, la lista è lunga, la lascio in sospeso. Ogni nome aggiunto è una vegogna in più.