Tempo di ripensamenti e di mea culpa, questo, per gli economisti di fama mondiale. L’ultimo, in ordine di tempo, è arrivato dal premio Nobel Paul Krugman che, dalle colonne del New York Times, si è sentito in dovere di chiedere scusa al Giappone.
“Per quasi due decenni”, ammette Krugman, le politiche economiche di Tokyo sono state ritenute da molti – e tra questi c’era lo stesso Krugman, oltre all’ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke – “un chiaro esempio di come non si gestisce un’economia avanzata”. E invece, ferme restando alcune perplessità rispetto alla “trappola della liquidità” in cui era rimasta incastrata l’economia nipponica, oggi il Giappone appare come un “modello da imitare”. E questo soprattutto per l’ottusità dell’Occidente: incapaci di trarre insegnamento proprio dagli errori commessi da Tokyo, a partire dal 2008 USA e Europa hanno preso decisioni in campo economico “così inadeguate, se non del tutto controproducenti” da costringere i propri lavoratori ad “un livello di sofferenza che il Giappone ha saputo evitare” di infliggere ai suoi cittadini.
Da un lato, infatti, “le politiche di austerity enormemente distruttive” attuate dall’Europa e “la drastica riduzione della spesa per le infrastrutture” negli USA hanno portato ad una situazione per cui, se pure “la politica fiscale nipponica non fece abbastanza” per incentivare la crescita, quella occidentale l’ha “decisamente distrutta”. Dall’altro lato ci sono le politiche monetarie: anche in questo campo nessun errore commesso dalla Banca del Giappone può essere paragonato a quello così sciagurato della BCE, che nel 2011 “rispedì l’Europa in recessione” innalzando i tassi d’interesse.
“Perché – si chiede Krugman – tutti sono caduti in questo errore così evidente? E inoltre perché l’Occidente, con tutti i suoi celebri economisti, ha creato uno sfascio ben peggiore di quello causato in Giappone?”. Krugman sostiene che, quanto alla prima questione, il problema risiede nel fatto che né l’Europa né gli USA hanno tenuto conto del fatto che “politiche che normalmente risulterebbero prudenti e virtuose, come il pareggio di bilancio e la rigida lotta all’inflazione”, in tempi di crisi “diventano ricette per aggravare la recessione”. Il motivo per cui l’Occidente si è comportato peggio del Giappone, invece, risiede nelle nostre “profonde divisioni” socio-politiche: negli USA “i conservatori hanno bloccato i tentativi di combattere la disoccupazione a causa di una generica ostilità verso il governo”, mentre “in Europa la Germania ha ribadito la sua volontà di avere una moneta forte e ha insistito con l’austerity”.
Quella di Krugman è un’autocritica non certo isolata, come dicevo, in questi anni di crisi economica. Solo per citare il caso più eclatante, si può ricordare lo studio del Fondo Monetario Internazionale pubblicato nel gennaio del 2013, e firmato dal suo capo-economista, Olivier Blanchard, nel quale si ammetteva che, con buona pace della Grecia e degli altri Pigs, erano stati fatti male i conti. La colpa era dei “moltiplicatori” sbagliati: ogni euro di tagli alla spesa sociale determinava una depressione non di 0,5, come avevano immaginato al FMI, ma di 1,5. Buono a sapersi.
E la fiducia cieca in modelli macroeconomici del tutto sballati riguarda anche le nostre istituzioni nazionali: dal 2008 ad oggi, il Ministero dell’Economia ha commesso errori per eccesso, nella previsione della crescita del PIL, di oltre due punti percentuali.
Come reagisce la nostra stampa di fronte a tutte queste dichiarazioni di impotenza del gotha dell’economia mondiale? Come commenta il fatto che politiche catastrofiche – per non dire criminali – sono state prese sulla base di congetture e modelli matematici del tutto fallaci? Nel migliore dei casi, riportando semplicemente la notizia, prendendo atto del mea culpa come di un semplice “Signori e signore, c’eravamo tanto sbagliati” (per citare Lo Stato Sociale). È un peccato che invece non si rifletta su questi ripensamenti per chiedersi se, anziché di singoli errori che hanno fatto inceppare un sistema che altrimenti sarebbe stato perfetto, non si tratti piuttosto di un’evidenza ben più drammatica, e cioè che il problema risiede nel sistema stesso. L’impressione è che ci si trovi di fronte ad una crisi non solo tecnica, ma direi epocale: il modello di sviluppo capitalistico fondato sul dogma della crescita economica infinita sta dimostrando la sua natura più vera, rivelandosi profondamente inadatto a garantire un livello decoroso di benessere e di felicità per la maggioranza della popolazione.
Eppure nessuno dei grandi organi di informazione sembra essere sinceramente interessato ad analizzare eventuali alternative. Alternative che andrebbero, ovviamente, discusse e magari messe alla prova dei fatti, senza incensarle acriticamente, come fanno in molti, ma alle quali forse è arrivato il momento di dare una minima legittimità nel dibattito pubblico. In nessun campo la nostra società, così pretenziosamente illuministica e progressista, accetta divinità assolute e intoccabili: ma in economia, a quanto pare, si fa un’eccezione. Si discute di possibili differenze di vedute ma sempre all’interno di un perimetro ideologico piuttosto ristretto, ed ogni eventuale evasione da tali confini viene considerata alla stregua della blasfemia, se non della pazzia.
La parola crisi deriva da un verbo greco che significa “discernere, giudicare”: siamo sicuri che questi anni così difficili non possano essere un’occasione per rimettere in discussione le nostre cieche credenze?