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Scusa, mi retwitti? La psicologia nascosta nei social

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Scusa mi retwitti? Sarà capitato anche a voi di ricevere un messaggio di questo tipo in privato, su Whatsapp, per email o via sms e, se può essere spiegato con l’umana inclinazione a chiedere favori e a farli, nella prospettiva di essere ricambiati, il suo senso profondo non finisce qui. Secondo gli psicologi, la disponibilità a twittare un messaggio o un link potenzialmente interessante per il nostro pubblico social, è legata sia alla percezione che abbiamo di noi stessi che al desiderio di condividere notizie e informazioni. O meglio, si tratta di due fattori che si intrecciano e questo è il motivo per cui gli dedichiamo così tanto tempo (….)

Twitter può essere usato in molti modi e per scopi assai diversi: come strumento di promozione e marketing politico, di denuncia e condivisione, di diplomazia e conflitto, ma più spesso risponde a un bisogno di comunità e di sentirsi connessi a qualcuno, e in questo senso l’ansia di essere retwittati è una implicita richiesta di valutazione del proprio comportamento, che contribuisce alla percezione di sé e al senso di autostima e di efficacia delle nostre azioni, identificandoci come attori sociali. Ma all’interno di network di individui che si raccolgono intorno agli #hashtag (“i temi”), che considerano rilevanti e giocando diversi ruoli, quello di hub (nodo, ripetitore), di bridge (ponte), oppure di cinguettatore solitario.

Il twitteverse: l’universo di Twitter. La comunicazione via Twitter, come accade per gli altri social network, offre la risposta al bisogno ancestrale di fare comunità, e il suo modo di funzionare innesca i processi neuronali profondi geneticamente orientati a favorire i rapporti tribali che assicuravano protezione e benessere e che nella società industrial/digitale devono essere ricostruiti in qualche modo. Twitter infatti, come altre piattaforme sociali, soddisfa bisogni piuttosto eterogenei: appartenenza, amore, affetto, amicizia, ma anche affiliazione e accettazione, gli stessi che ci portano a entrare in un partito, in una setta, a tifare per una squadra di calcio.Da una parte quindi contribuisce al riconoscimento sociale, dall’altra può diventare un esercizio narcisistico come quello di credere che le persone nella pubblica piazza siano interessate alle minuzie della nostra quotidianità (pensiamo ai widget e alle app che comunicano al mondo in quale aeroporto siamo appena atterrati o al libro che abbiamo da poco comprato). 

Quando con un tweet pretendiamo di ottenere i famosi quindici secondi di celebrità speriamo di condivere la sorte di quelli che celebrità lo sono per davvero, ma secondo molti studiosi questa tendenza è la spia di una ansietà esistenziale, “esprime insicurezza laddove se gli altri non ti riconoscono retwittandoti, smetti di esistere”, argomenta lo psichiatra Federico Tonioni. Insomma, “twitto dunque sono”, per scansare la paura di essere soli, twittare è solo uno dei sintomi della nostra dipendenza dalla comunicazione digitale, quella che riempie ogni momento passato “inutilmente” visto che puoi mandare i tuoi 140 caratteri di messaggio dal telefono mentre sei in fila o in metropolitana. Tuttavia l’ansia di essere retwittati risponde a principi basici della psicologia della comunicazione: persuadere, coinvolgere, creare legame sociale. Ma come si fa, visto che l’attenzione è selettiva, le risorse di memoria scarse e la tendenza a filtrare le informazioni? 

Farsi cliccare su Twitter. “Una strategia è avvantaggiarsi dell’Effetto bandwagon (unirsi alla maggioranza), ma la scelta del gruppo cui appartenere dipende dalle aspirazioni personali, dal sentirsi uguali a qualcuno o per affermare una diversità”. In questo senso i messaggi su Twitter segmentano il nostro essere sociali. “O di qua o di là”, ci dice la sociologa dei media Sara Bentivegna. Bisogna decidere da che parte stare per usare il linguaggio migliore e coinvolgere il gruppo di riferimento. Avere una bella foto nel proprio profilo aiuta ad essere cliccati. Come pure usare le lettere maiuscole all’inizio di ogni parola e limitare l’uso di hashtag e links. Evitare l’autopromozione, i sentimenti negativi e rimanere in tema. Inviare messaggi semplici e diretti è l’essenza di Twitter e quando ci si riesce con un messaggio di senso compiuto di 140 caratteri precisi, il twittertwosh, il successo è assicurato. Chenhao Tan della Cornell University ha predisposto un sito interattivo per mettersi alla prova. Ma sono l’attenzione e la reciprocità (follow, share, retweet) a definirel’influenza sul proprio network.

La spinta più forte per essere letti e retwittati è sollecitare l’identità percepita dei nostri interlocutori: noi stessi siamo pronti al retweet se questo è coerente con l’immagine che ci siamo costruiti e che vogliamo comunicare al mondo. Ad esempio, se ci presentiamo al mondo come ambientalisti, sarà facile retwittare messaggi ecologisti: per essere considerati parte del gruppo, dimostrare di essere aggiornati, informati e moderni. Insomma, se twittare contribuisce a rinforzare positivamente la nostra identità e le nostre relazioni, bene, altrimenti, nisba.

Fonte: http://www.repubblica.it/tecnologia/2014/11/11/news/psicologia_twitter-100271694/?ref=HREC1-34


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