“Noi dovremmo dapprima maturare un’idea forte e ben strutturata della mission della Rai, e solo dopo definire, in coerenza con la mission, i criteri della governance e l’entità del canone. Invece la ristrettezza dei tempi ci costringerebbe a fare un percorso inverso…”. Salvatore Margiotta, senatore del Partito Democratico e Vicepresidente della Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai in un’intervista sul sito di Articolo21 interviene sul futuro della Rai fra riforma, mission, governance, canone…
Senatore Margiotta, entro il mese di novembre il Ministro dello Sviluppo Economico deve indicare l’importo del canone per l’anno successivo. In mancanza di questa indicazione la Rai non può ovviamente procedere alla stampa e all’invio dei bollettini precompilati, né realizzare una specifica campagna informativa. Mancano soltanto due settimane…
Se lei mi chiede se il PD e il Governo sono seriamente intenzionati a modificare la modalità di pagamento del canone, le rispondo, senza alcuna incertezza, sì. Ma se mi chiede di darle la conferma che questa riforma sia definita entro i prossimi 15 giorni, questa certezza io non posso dargliela. Oltretutto tenga conto che il Sottosegretario Giacomelli è negli Stati Uniti e che solo lunedì prossimo sarà di ritorno. D’altronde nel corso della recente discussione alla Leopolda vi è stata la presa d’atto di un rovesciamento cronologico e logico della procedura. In altre parole, noi dovremmo dapprima maturare un’idea forte e ben strutturata della mission della Rai, e solo dopo definire, in coerenza con la mission, i criteri della governance e l’entità del canone. Invece la ristrettezza dei tempi ci costringerebbe a fare un percorso inverso: prima il canone e poi la riforma complessiva dell’azienda. Quindi, o lasciamo tutto così com’è, e ci prendiamo un anno di transizione, oppure intervenendo, è come se avessimo già deciso che cosa fare della Rai. Ad esempio, vogliamo che il canone copra il cento per cento delle entrate oppure confermiamo il regime misto canone-pubblicità? Evidentemente non si tratta solo di una questione economica ma di una scelta che presuppone due modi diversi d’intendere il servizio pubblico, la sua finalità e la sua centralità o meno nel comparto della comunicazione. A parer mio, il sistema misto è quello più rispondente all’idea di una Rai che possa competere con la concorrenza a condizione, però, che i maggiori ricavi derivino dal finanziamento pubblico piuttosto che dalla pubblicità, altrimenti sarebbe inevitabile una deriva commerciale che ne snaturerebbe la missione originaria.
A questo proposito c’è chi propone un sistema misto ma da “separati in casa”: un canale pagato solo dal canone e uno solo dalla pubblicità.
E’ un’idea che incontra un certo favore ma sulla quale nutro delle perplessità perché qualcuno potrebbe giustamente obiettare, a cose fatte, che un canale esclusivamente commerciale non avrebbe nessun titolo per restare nel perimetro del servizio pubblico e quindi potrebbe legittimamente essere privatizzato. Fintanto che le altre emittenti non “dimagriscono”, sarei propenso a mantenere le tre reti generaliste per evitare di fare un favore alla concorrenza: sarebbe un lusso che il servizio pubblico non può permettersi. Altro discorso è quello dei canali tematici che certamente potrebbero essere accorpati.
Si è parlato di abbinare il canone alla bolletta elettrica: un’operazione a dir poco complessa, visto che in Italia vi sono circa 160 aziende che erogano elettricità. Una riforma che, oltretutto, richiederebbe delle simulazioni preventive, magari con l’aiuto dell’Agenzia delle Entrate, per verificare la fattibilità del progetto e, soprattutto, la solidità economica del modello di pagamento.
Lei ha ragione. la proposta di agganciare il canone alla bolletta della luce è, in linea di principio, una buona idea ma presenta problemi giuridici e burocratici di non facile soluzione, tant’è che la stessa Autority per l’energia ha espresso perplessità su questa soluzione. Si tenga però presente che l’Autority non ha potere di veto, la decisione quindi è rimessa a governo e Parlamento.
Si è parlato con insistenza anche della riduzione del canone.
Certamente il principio a cui si ispira il sottosegretario Giacomelli “si paghi di meno, paghino tutti” è più che giusto, soprattutto per riguardo ai cittadini poco abbienti. Tuttavia, sono del parere che gli utenti ad alto reddito possano tranquillamente continuare a pagare gli attuali 113 euro, considerato che molti di loro possono permettersi di pagarne sessanta al mese per l’abbonamento a Sky.
Attualmente l’abbonamento è, in linguaggio tecnico, un’imposta di scopo che non rientra, quindi, nella fiscalità generale. Non vi è il rischio che il Governo, quale che sia, modificando la forma giuridica del canone torni ad avere, ancor più di quanto gli abbia concesso la legge Gasparri, un’ingerenza sull’azienda tale da limitarne l’indipendenza editoriale?
E’ verissimo! Anche se fosse un passaggio puramente formale, il fatto che lo Stato riscuota direttamente la tassa con cui finanziare il servizio pubblico è cosa diversa da un’imposta riservata espressamente alla Rai. Il “canone” garantisce da una parte l’autonomia della’azienda, dall’altra dà all’utente la certezza di essere abbonato a un servizio. Vi è, inoltre, l’esigenza di garantire alla Rai un gettito sostanzialmente predeterminato. Su questo punto concordo con quanto ha esposto di recente l’Usigrai in Commissione di Vigilanza: la certezza del finanziamento è il pilastro non solo dell’indipendenza economica ma anche di quella editoriale. Se non sai su quali entrate annuali puoi contare, è difficile rispettare il piano editoriale. Un dirigente della Rai mi faceva notare che il taglio del 5% previsto dalla legge di stabilità o va a incidere sui livelli occupazionali oppure sugli investimenti riguardanti la produzione di film e fiction con una conseguente ricaduta negativa su tutta l’industria dell’audiovisivo che, come è noto, si sostiene in massima parte solo grazie alla Rai.
Corre voce che nella recente assemblea dei parlamentari del PD, Renzi abbia affidato ai due capigruppo il compito di mettere nero su bianco le idee maturate nel partito sulla riforma della Rai. Può darmene conferma?
In effetti, al termine dell’incontro, Zanda e Speranza sono stati invitati a coordinare un “gruppo di lavoro” che raccogliendo le idee e le proposte finora elaborate le traduca in un progetto di legge. Tengo a sottolineare la rilevanza politica di questa “parlamentarizzazione” della riforma del servizio pubblico che è in linea con quanto stabilito dalla Corte costituzionale.
Devo confessarle che questa svolta non può che essere accolta con vivo piacere da Articolo 21 e da tutte le associazioni che hanno aderito al concorso “Una nuova carta d’identità per la Rai” che vede coinvolti gli studenti di numerose città, da Pantelleria a Varese, impegnati nel definire la mission che dovrà avere la Rai nei prossimi dieci anni. Se fosse prevalsa la via del decreto legge, la consultazione pubblica che abbiamo avviato in vista del rinnovo della Concessione, sarebbe valsa a nulla.
Apprezzo molto il lavoro che sta svolgendo Articolo 21, e l’ampia partecipazione delle scuole e delle università al concorso ne è la testimonianza. Il servizio pubblico non è più soltanto radio e televisione e lo sarà sempre meno. Pertanto, ben vengano i giovani con la loro cultura dei linguaggi intermediali e della comunicazione da molti a molti. Saranno di stimolo anche per quei giornalisti e dirigenti della Rai poco propensi ad aprirsi alle nuove professionalità e ai linguaggi dei media interattivi. Parlavo giorni addietro con un giornalista che si lamentava per essere stato trasferito da un Tg a un servizio di news on line: erroneamente, invece di considerarla un’opportunità professionale la riteneva una diminutio. Non sempre gli addetti ai lavori sono aperti all’innovazione e al cambiamento. Per questo consultazioni pubbliche come la vostra sono uno strumento essenziale per il cambiamento: un metodo che vale tanto per la Rai quanto per la scuola.