Quante volte si può morire nella vita? Quante…ed in che modo … per mano di chi? Taranto apprende della giustizia sospesa, tradita, strappata, calpestata, a Casale Monferrato negli stessi giorni in cui si svolge il processo per disastro ambientale a carico dei Riva per la presenza inquinante dello stabilimento siderurgico Ilva nella città.
E la domanda è sempre e solo questa: “Quante volte può morire un uomo?”
La Corte di Cassazione in questi giorni ha annullato la condanna a 18 anni inflitta dal tribunale di Torino, in appello, a Stephan Schmidheiny. Il reato di disastro ambientale è prescritto e lo era già dopo la sentenza di primo grado, nel 2012.
L’impianto accusatorio costruito dalla Procura di Torino, le indagini iniziate nel duemila, confermate dalle sentenze di primo e di appello, nel terzo grado di giudizio hanno visto una svolta. La Cassazione ha respinto l’idea del reato di disastro ambientale, che non può definirsi, dunque, permanente, anche in presenza della grave contaminazione ambientale provocata e dei gravissimi problemi sulla salute.
Quante volte si deve morire, per rinascere…?
Chiedetelo a Casale Monferrato, a pochi giorni dalla sentenza.
Chiedetelo al Sindaco di quella comunità che ha indetto il lutto cittadino perché tutti sconvolti ed increduli probabilmente di essere arrivati a tale esito.
Chiedetelo ai cittadini che hanno manifestato, ai commercianti che hanno tenuto le serrande degli esercizi commerciali abbassate, traditi per aver chiesto giustizia, traditi ed uccisi due volte, forse tre, forse quattro… troppe volte…
Reati come questi, sembra assurdo, ma succede, vanno in prescrizione; è una realtà che non può essere accettata, non ce la fa la mente che va a tutti quegli uomini e quelle donne che hanno perduto la vita e che urlano giustizia, e per tutti quei bambini a cui il futuro è stato strappato e ricucito con fili che si spezzano.
Casale Monferrato certamente non si piega, non si ferma e riparte da questo sgomento per nuove e più forti battaglie, con un macigno sulla testa che sarà difficile non sentire, perché lo stomaco brucia, e si annunciano nuovi processi Eternit, perché per chi vive in quella comunità l’accusa unica che si vuole e si deve dimostrare è “omicidio”.
Si dovrà combattere anche per cambiare la legge che rende prescrivibili questi tipi di reati in quanto sentenze del genere determinano sconfitte nella direzione della giustizia e raccontano solo di giustizia negata per le vittime, dimenticate, ignorate, che diventano trasparenti, come mai esistite, prescritte anch’esse da un senso di impotenza che gela ogni pensiero.
Perché il numero delle persone che si ammalano non è in discesa, e i familiari delle vittime protestano e cortei spontanei parlano di gente che non s’arrenderà.
Questa sentenza è stato un colpo incredibile, che non ci si aspettava perché sono anni che si lavora per denunciare i rischi per la salute all’Eternit, rischi oggi più attuali che mai, perché cresce il numero di chi si ammala a Casale. Il mesotelioma è il cancro che non lascia spazio alla speranza, che non perdona. Gli ex lavoratori sono pochi e ad ammalarsi oggi sono cittadini mai entrati nello stabilimento.
La città di Taranto vive ora questo processo e le sue vittime calpestate con una vicinanza più sentita, più vera, perché nelle aule del tribunale di Taranto si aggirano i familiari e gli avvocati e la stampa e …tutta la città. Perché a vario titolo e a vario stato emozionale, Ilva coinvolge tutti. Alle udienze e nelle varie fasi processuali c’è chi se ne sta in silenzio, pensando a chi ha perduto , c’è chi urla giustizia, chi scrive, chi non sa che succede davvero ma vuole starci per capire.
E la sentenza di Casale fa paura, racconta di una storia di ingiustizia che può assomigliarci.
I nomi e i numeri del cancro a Taranto sono tanti, sono diversi, sono numeri brutti, perché brutti sono i pensieri che nascono all’alba d’una sentenza che fa rabbrividire.
In questi giorni parlare di prescrizione farà male, perchè è arrivata in Cassazione nel processo Eternit per il reato di disastro ambientale, in un processo in cui , forse, ed il forse è davvero inadeguatamente usato, c’è stata un’errata valutazione dell’accusa della Procura di Torino, che avrebbe potuto e dovuto elevare dall’inizio il reato di omicidio volontario per dolo eventuale, come avvenuto così come ha fatto i morti della Thyssen Krupp.
Taranto vede ancora le fasi iniziali del processo e, dopo questa “batosta” di Casale, un po’ di energia s’è persa, lasciando un po’ più di spazio alla rassegnazione del “vedrai, anche qui finirà così, tutto in una bolla di sapone e nessuno pagherà”.
E rassegnarsi è la via più facile, che percorrere non possiamo più. Non ce lo possiamo permettere.
Lo stabilimento è una presenza che alla città non garantisce più né lavoro, né sicurezza economica, girano voci sempre più forti di problemi per il pagamento degli stipendi agli operai e la domanda che torna alla mente è sempre e solo questa:
“Quante volte si deve morire?”
Per un lavoro che pulito non è, che fame non appaga, che salute non rende, che rispetto per chi ha diritto a vivere in un ambiente sano non ha, che ricchezza al territorio non fornisce, è giusto morire?
Per una bugia che ci raccontano sullo stabilimento più grande d’Europa? In cosa è grande? Nella crisi economica che annuncia a singhiozzi? Nella quantità di fumi e veleni che ci regala? Nelle imponenti montagne di minerale che ad ogni filo di vento ci colora di rosso lenzuola stese ad un sole che c’illude ad ogni alba che nasce?
Quante volte un uomo deve morire, per capire che quel “parco lunare” è solo una montagna di minerale in cui s’aggira la diossina, che striscia nelle nostre vite regalandoci nuovi mali, dai nomi ormai noti?
Casale – Taranto… una brutta storia di cui vorremmo scrivere una fine differente.
(foto di Luciano Manna)