BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Proteggere le persone non i confini. Campagna del Comitato 3 ottobre per i corridoi umanitari con un film con la regia di Dagmawi Yimer

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I morti si possono contare solo se si vedono. Sembra una banalità ma per capire questa frase dobbiamo applicarla al mediterraneo. La storia dei naufragi di migranti è iniziata tanti anni fa. Negli ultimi dieci, fino all’ottobre 2013, se ne sono contati circa ventimila. Ventimila morti che, però in grandissima maggioranza, nessuno ha mai visto. Sono stime calcolate per lo più sulla base di articoli di giornale che riportavano notizie di seconda mano prese da gente di mare, oppure dalle denunce di scomparsa di genitori in grande ansia. Notizie assolutamente attendibili, ma impossibili da verificare. Poi c’è stato il 3 ottobre, i 368 morti di fronte Lampedusa li abbiamo contati uno per uno, e abbiamo capito che il conto dei morti nei dieci anni precedenti è solo per difetto, e che probabilmente sono molti di più. Da quel momento la strage si è consumata di fronte a dei testimoni. Sono i marinai, i medici, i volontari, imbarcati sulle navi dell’operazione Mare Nostrum. Li hanno visti e li hanno salvati per quanto hanno potuto. Lo hanno fatto con una organizzazione che consentiva di presidiare quel tratto di mare prima di allora raggiunto solo su chiamata di soccorso dagli infaticabili uomini della capitaneria di porto di Lampedusa che impiegavano ore per raggiungere l’obiettivo. Mare Nostrum ha reso tutto più evidente. I morti si possono contare solo se si vedono. Questa frase l’ha pronunciata l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, comandante in capo della flotta navale italiana e primo responsabile dell’operazione Mare Nostrum. L’ha pronunciata nel momento in cui quella poderosa missione di salvataggio in mare senza precedenti, stava terminando per decreto, lasciando il posto ad una operazione di controllo delle frontiere, qualcosa che in fondo già esisteva prima quando i morti si contavano solo per sentito dire. Il bilancio finale di quella missione di salvataggio dice che il settanta per cento delle centocinquantamila persone che mare nostrum ha salvato, vengono da Eritrea e Siria. Sono richiedenti asilo, persone che scappano da guerra e dittatura. Ognuno di loro ha diritto allo status di rifugiato, dunque ad accoglienza e protezione. Ne hanno diritto in tutti i paesi europei, ma con una sola condizione imprescindibile: devono arrivare vivi. Adesso proviamo ad immaginare se il mediterraneo non fosse sulla rotta delle migrazioni. Immaginiamo che chi scappa da morte certa abbia la possibilità di chiedere asilo prima di imbarcarsi. Immaginiamo che possano avere riconosciuto il loro diritto d’asilo senza rischiare la vita in mare e che possano viaggiare su un aereo con un passaporto con su stampato un visto umanitario. Proviamo ad immaginare che tutti i paesi europei decidessero di condividere il dovere dell’accoglienza ognuno nelle stessa misura e alle stesse condizioni e che dunque si riuscisse ad applicare il diritto internazionale senza che si parli più di “migliaia in arrivo, di sbarchi sulle coste, di clandestini, di invasione”. E senza neanche vedere più immagini di barconi stracarichi di donne, di uomini e di bambini. Se questo si avverasse sarebbe tutto diverso. Cambierebbe la nostra percezione e sarebbe più gestibile un fenomeno che già di per se non è drammatico: centocinquantamila è un numero importante, ma possibile che l’Europa non sia in grado di farvi fronte? Solo la Giordania, il Libano, la Turchia, ospitano poco meno di sei milioni di persone in fuga dalla guerra. Sei milioni. E l’Europa grida all’invasione per centocinquantamila. C’è una sproporzione poco comprensibile. È un problema di percezione del fenomeno viziata soprattutto da quello stillicidio di notizie di arrivi che crea tensione e produce fenomeni di intolleranza e di rifiuto. Anche violenti in luoghi dove la vita sociale di chi ci vive non è considerata una priorità da chi amministra e chi vuole provocare, aizzare tensioni ha gioco facile anche se è minoranza. Come a Tor Sapienza. Un mondo diverso, certamente migliore, sarebbe possibile avviando un programma di corridoi umanitari, di accesso garantito all’Europa attraverso un visto umanitario concesso prima del Mediterraneo. ma con una sola condizione imprescindibile: l’Europa deve decidersi ad agire.

Comunicato stampa del Comitato 3 ottobre

Proteggere le persone non i confini

Proteggere le persone, non i confini. Il Comitato 3 ottobre ha celebrato la ricorrenza del primo anniversario del naufragio di lampedusa con questo slogan. Oggi quelle parole vengono rilanciate con una campagna europea per la creazione di corridoi umanitari. Chiediamo all’Europa di concedere il diritto d’asilo a chi scappa da guerra e dittatura prima che questi si imbarchino nel mediterraneo. Chiediamo l’apertura di corridoi umanitari e programmi di accesso agevolato per fermare la strage che si consuma in mare e per impedire di arricchirsi alle organizzazioni criminali di trafficanti di uomini.

Proteggere le persone non i confini. Il Comitato 3 ottobre ha prodotto un film con questo titolo. La regia è di Dagmawi Yimer, lo trovate a questo link http://youtu.be/LKbjj6FnFdQ. È realizzato sulla base del flash mob del 3 ottobre scorso a Lampedusa, con cui 368 persone hanno ricordato che in mare si muore per superare una linea di confine.


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