All’indomani dell’operazione Insubria, condotta dal ROS dei carabinieri nelle province di Como, Lecco e Monza Brianza, che ha portato al fermo di una quarantina di persone, nell’opinione pubblica prevalgono diversi stati d’animo nell’approcciare la nuova vicenda giudiziaria che riguarda la ‘ndrangheta in Lombardia. Da un lato è forte la tentazione di rimuovere il fermo immagine di un film già visto. Perché le riprese degli affiliati ai locali in terra lombardia, rimbalzate sul web in queste ore, sembrano appartenere ad una storia minore, brutta copia di qualche fiction di successo sul tema mafia e dintorni. Prevale infatti nello spettatore mediamente informato la sensazione di straniamento, quasi non si parlasse di ‘ndrangheta, quasi non si parlasse di Lombardia. Insomma, qualcosa da liquidare in fretta, perché non riguarda la vita quotidiana.
Eppure stiamo parlando di Calolziocorte, Cermenate e Fino Mornasco, laboriosi centri della Lombardia, a pochi chilometri dal centro di Milano, capitale dell’Expo prossimo venturo. Non c’è però solo la rimozione a tener banco nell’opinione pubblica, perché è segnalata in aumento la paura. C’è da rimanere turbati di fronte alle quasi novecento pagine in cui il giudice per le indagini preliminari di Milano, Simone Luerti, condensa il materiale probatoria nell’ordinanza di custodia cautelare richiesta dalla Direzione Distrettuale di Milano. C’è da rimanere preoccupati nel leggere, ancora una volta, di come la tradizione criminale della ‘ndrangheta rinnovi la sua presenza in una terra che, ostinatamente ma ciecamente, continua a dichiararsi “mafia free”. Eppure, da una prima lettura delle carte, la rimozione o lo sgomento sono atteggiamenti assolutamente ingiustificabili in egual modo, perché i magistrati milanesi pongono l’accento su una linea di continuità tra queste ultime risultanze e la storia criminale mafiosa della regione.
Un filo rosso
Nel caso specifico l’operazione Insubria si lega, non solo idealmente, ma soprattutto nei fatti all’operazione “I fiori della notte di San Vito”, il cui iter processuale partì nel 1995 per chiudersi definitivamente sei anni dopo, in Corte di Cassazione. Quel filone processuale aperto dalla DDA milanese portò allo scoperto gli affari e le relazioni del clan Mazzaferro, attivo dai primi anni ottanta nel comasco e dintorni, uno dei più pericolosi della ‘ndrangheta tanto da essere definito così nell’ordinanza: «una sorta di embrione nella provincia comasca di quella che poi sarà chiamata “La Lombardia”, l’articolata struttura di ‘ndrangheta a cui si riferiscono tutti i locali e le ‘ndrine in Regione».
Oggi si legge che i tre locali di Fino Mornasco, Calolziocorte e Cermenate, portati alla luce dall’operazione Insubria, erano legate a quella di Giffone (RC) ma già nella precedente operazione erano state svelate nella loro operatività. Oggi siamo costretti a prendere atto che, dai colpi sferrati loro in precedenza, i clan hanno saputo riprendersi per riavviare le loro attività. C’è un filo rosso che lega le storie dei locali in Lombardia, a partire dal loro forte legame con la Calabria, terra d’origine e ponte di comando in tutti questi decenni: un legame che ha tenuto anche di fronte alle tentazioni secessioniste di Carmelo Novella, il boss eliminato nel luglio del 2008 proprio per questa sua velleità mal riposta. Un legame che ancora oggi si esplica nelle direttive impartite per la conduzione delle attività quotidiane e nella concessioni delle diverse doti criminali previste dal cursus honorum mafioso. Le vicende relative a Novella consentono di evidenziare l’altro legame con la storia della ‘ndrangheta in Lombardia, rappresentato dalle risultanze dell’operazione Crimine/Infinito che nel luglio del 2010 portò alla scoperta di ben sedici locali attive in Lombardia: Milano, Cormano, Bollate, Bresso, Corsico, Legnano, Limbiate, Solaro, Piotello, Rho, Canzo, Mariano Comense, Erba, Desio e Seregno, Pavia.
Nel corso di un’intercettazione uno degli affiliati ebbe a confidare ad un altro la consistenza della presenza mafiosa in regione: «Vedi che qua in Lombardia siamo venti locali. Qua siamo venti locali, siamo cinquecento uomini cecè, non siamo uno “. Cecè vedi che siamo cinquecento uomini qua il Lombardia, sono venti locali aperti». Con la scoperta di queste altre tre locali, si viene a completare ulteriormente l’organigramma della “Lombardia”, la struttura federativa dei locali attivi in regione che assicura il collegamento con la terra d’origine.
Per leggere le carte di Insubria, occorre tenere conto di questa storia criminale che viene da lontano e non sfugge agli inquirenti l’importanza epocale del sigillo apposto in sede finale dalla Corte di Cassazione proprio all’operazione Infinito, un sigillo utile a capire anche le ultime acquisizioni investigative: «Se fino ad oggi nelle indagini era necessario raccogliere elementi per dimostrare l’esistenza dell’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta in Lombardia e poi porsi il problema della partecipazione, oggi il tema dell’an dell’esistenza della ‘ndrangheta in Lombardia è in qualche modo superato, residuando invece, come è ovvio, il problema di chi vi appartiene».
Dal radicamento alla visibilità e al riconoscimento
I conti ancora però non sembrano tornare, perché se il numero delle locali della “Lombardia” risulta pressoché accertato e svelato – 16 da Crimine/Infinito e 3 da Insubria –, per quanto riguarda il numero degli affiliati, anche a volerne arrotondare le cifre – 200, tra i 150 inizialmente finiti nelle maglie di Crimine/Infinito e i quasi 40 di Insubria – siamo ancora ben lontani dall’aver assicurato alla giustizia la totalità degli ‘ndranghetisti attivi in regione, i cinquecento dichiarati nelle intercettazioni. Quel che è sicuro, al di là dei numeri, è la realtà del fenomeno mafioso oggi in Lombardia.
Il gip Luerti accoglie la tesi accusatoria dei pm Paolo Storari e Francesca Celli, coordinati dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, per parlare di “presenza stabile e costante”, acclarata anche da tutti i procedimenti instaurati nell’ultimo decennio: «Si è pertanto superata la logica della infiltrazione, intesa come sporadico inserimento dei mafiosi in traffici illeciti e ad essa è subentrato il radicamento. Alla logica degli affari è stata affiancata la logica della appartenenza; al modello di azione tendente al profitto si è unita a una modalità operativa finalizzata all’esercizio del potere; agli interessi individuali delle singole “locali” e dei singoli appartenenti si sono affiancati gli interessi collettivi dell’ organizzazione criminosa».
Questo è il punto cruciale, il vero tasto dolente, perché grazie al radicamento e alla presenza stabile e costante le ‘ndrine hanno acquisito visibilità e riconoscimento, come sottolineano gli inquirenti. Non c’è più spazio quindi per sgomento o rimozione, non è più il tempo per difendere il buon nome della città o della regione: quello che serve è una dolorosa presa d’atto dello stato di presenza mafiosa, perché si possano quanto prima porre all’indice tutte le forme di relazione, cointeressenza, complicità che hanno consentito alle cosche di radicarsi.
Dalla voluminosa ordinanza, si evince come tradizione e modernità convivano soprattutto nei rapporti economici e sociali che la ‘ndrangheta instaura su un determinato territorio. Oltre ai meccanismi mafiosi che si sostanziano in assoggettamento e omertà e che consentono la commissione di reati, l’acquisizione di attività economiche e l’inserimento in competizioni elettorali, secondo lo schema della fattispecie prevista dall’articolo 416 bis c.p., appaiono ben altri sintomi del pericoloso contagio.
Non sempre sono omertà e paura a dettare le azioni di quanti si trovano sottoposti alla signoria degli ‘ndranghetisti, ma sono ben più prosaiche le altre molle che spingono imprenditori, professionisti e anche politici a intessere relazioni con loro. C’è un interesse personale, prevalentemente di natura economica, ad agire da movente ogni qual volta si accondiscende alla richiesta criminale. Rimane un substrato di violenza, proprio di ogni rapporto estorsivo, ma quello di cui si discute è spesso il perfezionamento di un accordo di reciproca soddisfazione.
La Santa o della continua trattativa
L’ulteriore consolidamento di quello che viene definito ancora una volta “il capitale sociale” delle cosche è perseguito pervicacemente dagli aderenti al sodalizio criminale e per conseguire passi in avanti nel consolidamento dei locali, viene messo in funzione quella camera di compensazione ulteriore, quella sorta di “upgrade criminale” che è conosciuto come “la Santa”. Il filmato che riprende alcuni degli affiliati in occasione di una consueta “mangiata” in quel di Castello di Brianza, avvenuta nell’aprile di quest’anno, è un documento di eccezionale valore storico, perché testimonia come anche in Lombardia, secondo quanto era giù successo in Calabria, vi sia la ricerca di un slancio in avanti dell’organizzazione criminale, grazie alla concessione delle doti di santista.
Si evince meglio da questo passaggio dell’ordinanza il valore del momento storico che l’organizzazione criminale sente di dover vivere: «La “Santa” rappresenta un’evoluzione e un salto, financo una rottura, con la “società di sgarro” che deve essere rinnegata. Per il “Santista” non valgono più i vincoli e le regole dei comuni mafiosi. Ciò che prima rappresentava “infamità”, come il rapporto con politici, imprenditori e forze dell’ ordine finalizzato allo scambio di reciproci favori, ora – nella nuova condizione – è non solo permesso, ma auspicato».
E si spiega proprio così come la ricerca del capitale sociale diventi la prima attività del locale attivo in un determinato territorio. Infatti si legge ancora: «La relazione, il mutuo vantaggio, l’interessenza non sono più strumenti proibiti, ma diventano i mezzi sofisticati ed eleganti della nuova elite ‘ndranghetista. Non più scontro e contrapposizione, ma insinuazione e compromesso. Questo avvicinamento – che si sviluppa dalla metà dell’Ottocento – non era immediatamente realizzabile, se non attraverso un organismo o camera di compensazione in cui le diverse necessità potessero incontrarsi con le giuste garanzie di segretezza ed affidabilità. Tale funzione venne svolta dalla massoneria».
Una criminalità organizzata che cerca sponde nella massoneria, tanto da rinnegare i tradizionali Osso, Mastrosso e Carcagnosso per le formule di affiliazione e affidarsi invece alla protezione di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, noti massoni. Una criminalità organizzata che, sotto mentite spoglie, intavola rapporti e relazioni, intesse contrattazioni e trova soluzioni a problemi comuni ad imprenditori e politici. Una ‘ndrangheta, quella innalzata al livello di “Santa”, che ricorda molto da vicino la Cosa Nostra della trattativa continua tra Stato e mafia.
Una criminalità organizzata così è la nuova frontiera della ‘ndrangheta oggi in Lombardia. Qualcosa che non deve sorprendere. Qualcosa che non deve fare paura. Piuttosto qualcosa da conoscere per combattere meglio, a qualsiasi livello. Perché da ora in poi non sono ammessi più alibi.