“Caron dimonio, con occhi di bragia”
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia”.
Le parole di Dante – che abitano così maestosamente il Giudizio Universale di Michelangelo – sembrano anch’esse riecheggiare all’interno di una Cappella Sistina che oggi risplende di nuova luce.
L’incontro con il Direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci è per un’occasione unica: settemila led per aumentare la nitidezza e la luminosità, per apprezzare sia l’interezza che i dettagli della Cappella, senza contare che il nuovo impianto di illuminazione consentirà un risparmio energetico del 60%. Una nuova luce grazie alla quale “finalmente i quattrocentisti si guardano”, racconta Paolucci.
Nella stessa occasione i Musei Vaticani hanno rinnovato anche l’impianto di climatizzazione, un nuovo respiro per gli affreschi sottoposti a una pressione antropica di oltre 5 milioni di visitatori l’anno, con la presenza contestualmente di quasi 2mila persone, dunque polvere, umidità, anidride carbonica, un mix che, nel lungo termine, depositandosi sugli affreschi, poteva innescare delle derive pericolose per la conservazione delle pitture.
Un lavoro ambizioso durato tre anni ed eseguito proprio per fare in modo che non ci siano mai più restauri. L’unico, definitivo, rimarrà quello inaugurato nel 1994 guidato da Fabrizio Mancinelli e realizzato da Gianluigi Colalucci.
Le donne e gli uomini del Novecento erano stati abituati a vivere Michelangelo in bianco e nero – tormento ed estasi -, così fin dai manuali del liceo le persone lo immaginavano e vedevano.
Scoprire un Buonarroti con i colori del Pontormo, di Andrea del Sarto, del Rosso, della maniera fiorentina, fu uno shock visivo: “Quando si restaura un grande capolavoro, che sta nella memoria, nelle attese della gente – secondo il Direttore dei Musei Vaticani – bisogna tenere conto della patina immateriale che è quella che i nostri occhi sono abituati a vedere di un’opera d’arte, forse l’unico errore fu non aiutare a capire ciò che veniva alla luce, spiegare didatticamente l’idea errata che Michelangelo dovesse essere caravaggesco, nero, drammatico”
Un Michelangelo Buonarroti, tormentato, drammatico, ma alla sua maniera, attraverso il corpo umano, la sua cifra stilistica.
Percorrere il perimetro della Cappella Sistina, con la testa reclinata e gli occhi persi verso l’alto in un senso di sublime estasi, è esperienza di rara bellezza, e in questa nuova veste particolarmente.
Qui Papa Sisto IV della Rovere nel 1480 chiamò i più grandi pittori toscani e umbri – Perugino, Botticelli, Ghirlandaio, Signorelli – per dipingere nelle pareti laterali le storie di Mosé da una parte e di Gesù dall’altra; i due legislatori, la vecchia legge e la nuova legge.
Trent’anni dopo Michelangelo fu convocato a Roma da Papa Giulio II, nipote di Sisto IV, pontefice con una visione cesaria del pontificato, a dipingere la volta della Cappella Sistina. “La barba al ciel ella memoria sento in sullo scrigno e’l petto fo d’arpia, e’ l pennel sopra ‘ l viso tuttavia mel fa, gocciando, un ricco pavimento”, così racconta se stesso il Buonarroti.
L’artista non è convinto, in realtà più volte dice che il suo mestiere è affrontare il marmo e non i colori, ma alla fine realizzerà 1080 metri quadrati di pittura in quattro anni. Nei nove riquadri centrali le Storie tratte dal libro della Genesi e poi le Sibille, i Profeti, gli Antenati e gli Ignudi ispirati alle figure dei Prigioni, che aveva originariamente immaginato come sculture per la tomba di Giulio II.
Entrare in questo luogo, osservare gli affreschi semplicemente come una pittura è riduttivo, bisogna colmare l’indecifrabilità dei simboli, perché la verità è che si tratta – come la descrive Paolucci – di una “sciarada teologico-culturale che è arduo intuire al primo sguardo, è la sintesi della teologia cattolica” e racconta il sapere delle scritture del Buonarroti, un Michelangelo profondo come mai nessun artista, capace di rivoluzionare l’iconografia tradizionale.
Come accade anche nel Giudizio Universale, che viene inaugurato nel 1541 da Papa Paolo III Farnese, Michelangelo in realtà giunge a Roma da Firenze già nel 1534 per un viaggio senza ritorno, spinto dalla nuova ascesa al potere de’ Medici in Firenze che lui aveva osteggiato impegnato nella causa repubblicana da spirito democratico qual era, influenzato anche dall’amicizia con Tommaso de’ Cavalieri, giovane patrizio romano che gli resterà accanto fino alla morte.
Nell’immensa composizione, il giorno del giudizio – la fine del tempo e della storia – gli angeli tubicini chiamano eletti e dannati, i corpi glorificati e quelli sottoposti a eterna condanna, San Pietro riconsegna le chiavi al Cristo Giudice – dopo che nell’affresco quattrocentesco del Perugino le
aveva ricevute -; San Bartolomeo con il volto di Pietro Aretino che regge la sua pelle in mano, e in quella pelle scuoiata il magnifico autoritratto di Michelangelo, la presenza della barca di Caronte, segno della passione del Buonarroti per la Divina Commedia.
“Giunto è già ’l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov’a render si varca
conto e ragion d’ogni opra trista e pia.
Onde l’affettüosa fantasia
che l’arte mi fece idol e monarca
conosco or ben com’era d’error carca
e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia”.
Le parole con cui ci congeda il Direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci appartengono a Michelangelo sonetto n.285 del 1555. Michelangelo chiede perdono per aver fatto dell’arte il suo Signore e il suo Dio.