La strage dei 43 ragazzi rapiti, uccisi e bruciati in Messico da un cartello della droga – con la complicità della polizia e su mandato del sindaco della cittadina di Iguala – ha un che di orrorifico e di indicibile che illustra però drammaticamente quali siano i rischi gravissimi dell’attuale processo di globalizzazione economica. Prima la cronaca che non è indifferente.
Il 26 settembre un gruppo di studenti della scuola di di formazione per insegnanti di Ayotzinapa, una località vicino a Iguala, viene sequestrato dalla polizia. Siamo nello stato del Guerrero, non lontano dal Distrito Federal, quello di Città del Messico. E’ una delle regioni più povere del Paese, un territorio attraversato brutalmente dalla presenza dei cartelli del narcotraffico – appoggiati a livello istituzionale – che spargono terrore e macinano morti anche per via dei conflitti fra i vari gruppi. Da diversi anni, ormai, il Messico è diventato uno de Paesi chiave della traffico di droga avendo assunto al suo interno tutta la catena legata al traffico della droga, ovvero sia la produzione che l’esportazione, in particolare verso gli Stati Uniti; intorno al commercio della droga è stato costruito un regno di morte, sequestri, omicidi, terrore in ampie regioni del Paese. Ma qualcuno si oppone a questa deriva senza fine e soprattutto alla corruzione nella quale sono coinvolte le autorità e le forze di sicurezza che spalleggiano i narcos. Fra quanti hanno protestato pubblicamente troviamo gli studenti della scuola di Ayotzinapa che, come molti altri loro coetanei nel resto del Paese, sono scesi in piazza contro la violenza e la povertà.
Il 26 settembre vengono dunque sequestrati dalla polizia e consegnati da quest’ultima al gruppo di narcotrafficanti dei Guerreros Unidos, affiliati al cartello dei Beltrán Leyva. I narcos a loro volta li portano in una discarica dove i ragazzi sono interrogati, malmenati, uccisi e poi bruciati. Alcuni di loro erano già morti soffocati nel trasporto compiuto dalla polizia su blindati chiusi.
A dare conferma di questa sequenza sono stati tre narcotrafficanti che hanno confessato il delitto. L’ordine era partito dal sindaco di Iguala, José Luis Abarca, il quale temeva che il gruppo, quel giorno, avesse intenzione di interrompere un comizio di sua moglie, Maria de los Angeles Pineda. Quest’ultima – attenzione – è la sorella di tre narcotrafficanti del cartello dei fratelli Beltran Leyva, e di fatto è il capo dei Guerreros Unidos a Iguala. Suo marito, il sindaco Abarca, è stato accusato nel 2013 di aver ucciso un leader contadino, Arturo Hernandez Cardona. I due sono noti a Iguala come la “coppia imperiale” e vantano fra le altre cose la proprietà di una catena di gioiellerie; dopo il sequestro sono fuggiti, fin da subito infatti da familiari e opinione pubblica sono stati indicati come i veri mandati, per essere infine arrestati in una casa abbandonata di Città del Messico.
Alcuni particolari ancora vanno sottolineati. In primo luogo non è affatto sicuro che i ragazzi quella mattina fossero intenzionati ad andare a interrompere il comizio della moglie de sindaco (candidata alla successione del marito), su questo punto non c’è ancora chiarezza, pare infatti che fossero diretti ad altre iniziative di carattere politico, ma certo la cosa cambia poco. La scuola, d’altro canto, è nota per essere stato un centro di mobilitazione studentesca contro la corruzione e i narcos, uno de motori delle proteste nella regione, un istituto tradizionalmente di sinistra; i ragazzi scomparsi sono tutti compresi fa i 18 e i 21 anni. La vicenda ha provocato le dimissioni del governatore dello Stato del Guerrero, Angel Aguirre, mentre nel mese di ottobre grandi manifestazioni di protesta per il rapimento dei ragazzi hanno scosso il Paese. Va detto pure che la “coppia imperiale” apparteneva a un partito considerato ‘di sinistra’, segno che fra le principali forze politiche del Paese in merito al tema corruzione e violenza, non c’è più vera distinzione, si tenga infine presente che i Guerreros Unidos, sono i principali fornitori di oppio e marjiuana della metropoli statunitense di Chicago.
Questo il quadro a grandi linee; si può anche rilevare incidentalmente come l’indebolimento di questo o quel cartello della droga accenda, ciclicamente, faide e rinfocoli la violenza nelle varie regioni dl Paese fino a che non si stabilisce un nuovo equilibrio del terrore. In questo contesto l’attuale presidente Enrico Pena Nieto, è sotto accusa per non essere riuscito a far fronte a una crisi che sta sta ormai facendo a pezzi il Messico.
Dal Messico sta arrivando un messaggio ormai da diversi anni: il potere statale può decomporsi del tutto se la corruzione e il principio di un arricchimento selvaggio, si saldano con ingiustizie sociali e sfruttamento. Dobbiamo cominciare a fare i conti con una globalizzazione della criminalità che non conosce frontiere e non conosce pietà, che pervade le istituzioni e non di rado basa la propria impunità sulla complicità delle forze di sicurezza, dei corpi militari d’ élite, dei servizi speciali. Un conglomerato che trova sponda nei governi nazionali e locali e spesso può contare su alleanze internazionali.
E’ uno scenario cupo, certo, ma che ha origini concrete. Nel caso del Messico, per esempio, va ricordato come il Nafta (North american free trade agreement), l’accordo di libero scambio con Usa e Canada dei primi anni ’90, abbia favorito politiche di violenta deregulation portando allo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse del Paese da parte di potenti gruppi stranieri, in primis grandi multinazionali nordamericane, mentre alla libertà delle persone veniva al contrario posto un limite tragico attraverso la costruzione del muro che divide il confine messicano da quello statunitense con lo scopo di fermare l’emigrazione dal sud al nord. E su questa rotta s’incrociano, di nuovo, i destini di quanti vogliono fuggire dalla povertà e per questo si devono affidare di nuovo alla criminalità, a chi controlla il traffico della droga (non senza complicità dall’altra parte del muro), per provare a varcare quel confine lungo il quale si perde spesso la vita.
Si tratta naturalmente di una storia complessa, ma basti qui ricordare che la firma di quel trattato fu possibile grazie anche a un accordo di non belligeranza fra i capi dei cartelli della droga dell’epoca e il governo del Partito rivoluzionario istituzionale nel 1994. Ci sono poi le ragioni endemiche – ma non del tutto scollegate da questi eventi – di una crisi nella quale il mancato sviluppo di una democrazia completa abbia generato una palude di potentati intrecciati fra loro all’interno dei quali la corruzione ha trovato un brodo di coltura praticamente perfetto.
Quest’ultima, ormai, ben oltre la possibilità di essere problema solo nazionale o giudiziario, è fenomeno globale che influisce sulle scelte dei governi, indirizza la politica dei singoli Stati in senso oligarchico, produce alleanze indebite con gruppi malavitosi o terroristici. Mai come in quest’epoca oppressione politica, traffico di droga e traffico di armi si sono trasformati in una triade strettamente connessa al suo interno e in grado di riportare indietro il processo democratico e di affermazione dei diritti umani e sociali nel mondo.