C’è un’immagine, nel caos degli scontri fra gli operai dell’Ast e la polizia avvenuti l’altro giorno a Roma, che più di tutte raccoglie il senso e segna la cifra di una stagione che molti commentatori e politici un tanto al chilo vorrebbero archiviare per sempre, inseguendo il loro mito totalmente ideologico della “fine delle ideologie”. Quella in cui il leader della Fiom, Maurizio Landini, prova in tutti i modi a calmare gli animi dei suoi rappresentati, comprensibilmente agitati per le cariche subite, dicendo loro di non raccogliere le provocazioni per non passare dalla parte del torto.
Perché il sindacato è anche questo, un medium fra l’azione dei lavoratori e la reazione dei padroni, fra le rivendicazioni degli operai e le difese dello Stato, fra il sentimento di violenza che può nascere dal percepirsi abbandonati al proprio destino di sconfitto in un mondo competitivo e le cause e i responsabili, veri o presunti, di quella situazione.
Spesso lo si ignora, ma come mi raccontò un giorno un caporeparto di un’efficientissima fabbrica antisindacale, a volte a chi è costretto a imporre i dettami e i ritmi imposti dall’organizzazione aziendale in un ambiente non mediato da quei corpi sociali di cui oggi sempre più si festeggia il declino, può capitare di non essere proprio tranquillo perché “ognuno di loro mi conosce, e sa dove abito”.
In effetti, il sindacato è pure la garanzia per il padrone e i suoi esecutori di non trovarsi il lavoratore e le sue rivendicazioni sotto casa. Perché, se anche chi proviene da una lunga tradizione di sinistra delle e nelle istituzioni, dice con nonchalance che alla concertazione e alla trattativa con i sindacati si può e si deve rinunciare, delegittimandoli e cercando di superarli, il rischio è che questi spariscano del tutto, o che siano ridotti a un’impotenza così grande da renderli praticamente inutili.
Una situazione che vede un pezzo importante dell’élite al potere festeggiare in conciliaboli fashion all’interno di antiche stazioni trasformate, con gioiosi rilanci sulla limitazione del diritto di sciopero o sulle manifestazioni numerose solo perché pagate da sindacati che fanno i congressi con tesseramenti falsi, ma che non promette nulla di buono a quei lavoratori che in questo sistema si vedono vinti e guardati come perdenti da quelli che trionfano e vengono celebrati per il loro essere vincenti.
Perché, pensiamoci un attimo: supponiamo che il sindacato non ci sia più. Supponiamo che non esista nemmeno un soggetto politico che abbia come anima e obiettivo la rappresentanza organizzata del mondo del lavoro. Supponiamo che quelle rivendicazioni non vengano da nessuno prese in carico in quanto generali, ma derubricate a singole condizioni e variabili interconnesse di un più ampio, e marginalizzante, ragionamento complessivo. A chi dovrebbero guardare quanti sentono il bisogno di un’attenzione? Dove dovrebbero rivolgere i loro sguardi operai e impiegati, dipendenti e subordinati, e tutti coloro che si guadagnano di che vivere, o cercano di farlo, attraverso un lavoro reso per un salario? Chi rimane a fermare la loro rivendicazione rabbiosa di quanti, come i personaggi di Furore di Steinbeck, cercano solo un colpevole per la loro collera?
Quelli che questo modo di governare e chi lo osanna e sostiene ci promette sono tempi nuovi, certo; ma non è detto che siano pure migliori. Gioire per la deriva disintermediazionista che sta cancellando la società per ridurla a folla di individui, in una visione thatcheriana, e nel contempo, irresponsabilmente, evocare la necessità di cambiamenti violenti, può essere un combinato disposto davvero pericoloso.
Solamente i corpi sociali e di mediazione possono organizzare e dare piena coscienza a una classe di individui, e fare delle loro energie forza da spendere per guardare con speranza e agire per un obiettivo politico e sociale. L’individuo, da solo, può appagare i propri desideri, o nutrire e consolare le proprie frustrazioni con la rabbia: ma da questa, e da soli, nasce solo reazione e violenza, disperata, cieca, pericolosa.