Senza scomodare l’Eterno ritorno di Nietzsche, certo la vicenda della Rai assomiglia ad un ritornello senza fine: annunci, voci, anticipazioni, convegni. Ma nessun progetto definito presentato dal governo, che pure aveva promesso di recidere i rapporti tra l’azienda e i partiti, di anticipare a quest’anno il rinnovo della concessione dello Stato, di rimodellare la governance, di mettere mano al canone di abbonamento. Quest’ultimo argomento sembrava l’unico davvero attuale. E la Rai ha già acquistato la carta per i bollettini, visto che la riscossione avviene a gennaio. Lo scorso 28 ottobre scrivemmo che la storia del canone ha un non so che di misterioso. Ora, qualche tassello del mosaico sembra illuminarsi: il pagamento avverrà con la bolletta elettrica, l’ammontare sarà diversificato, ma –ecco l’ovvia e prevedibile notizia delle ultime ore- non dal prossimo anno. Tanto rumore per nulla? Si lavori almeno per semplificare il meccanismo, introducendo l’ammontare nella dichiarazione dei redditi: si paghi a seconda di quanto si ha. Che senso ha che un pensionato al minimo o un precario o un esodato sia classificato alla stregua di un ricco finanziere? Ecco, si faccia qualcosa di sinistra, per una volta. Ma ancor meno senso ha il febbrile dibattito attorno alla vecchia tassa, senza l’ancoraggio di una visione di sistema. E già, perché il servizio pubblico nella società della rete e dei metadati è tutt’altro. E’ (potrebbe diventare) il laboratorio del senso comune dell’età digitale. Il luogo di socializzazione delle culture, di traduzione nella fruizione di massa delle logiche separate degli algoritmi del capitale cognitivo. E di ricostruzione dell’informazione territoriale in una chiave non localistica. Per questo, non solo e non tanto per rincorrere lo spirito del tempo, è essenziale svincolare la Rai dalla politica: da questa politica. Anche su tale questione il governo lascia intendere che c’è un lavoro in corso. Bene, aspettando Godot-Renzi. Tra l’altro, i prolegomeni di una buona riforma si rintracciano in numerosi testi rimasti colpevolmente incompiuti in questi anni. A cominciare dal progetto del centrosinistra n.1138, che immaginava un consiglio di amministrazione di nomina assai più articolata di quanto brutalmente sancì la legge Gasparri del 2004, dove si ripristinò la lottizzazione secca, già superata dalla legge n.206 del 1993 che aveva attribuito il compito della scelta degli amministratori ai presidenti della Camera e del Senato. E poi, la proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Tana de Zulueta, i testi a firma Gentiloni, Zaccaria, Giulietti per Articolo 21, Veltroni, Bersani (con numerosi altri) e –recentemente- l’articolato assai evoluto coordinato dal MoveOn: con il coinvolgimento nella governance degli utenti. Che non sono ormai un mero pubblico passivo, quanto piuttosto “prosumer” –produttori e consumatori, nell’era dei social network e dell’interattività. Si tratta, così, di discutere di strategie e di visioni, non di ritocchi brevi e transeunti.
L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa, ci ricorda Kundera e ancora una volta il mistero è la parola chiave. Si apra una discussione pubblica e programmata. P.S. A proposito di indipendenza della Rai dai partiti, come mai la commissione parlamentare di vigilanza ha voluto ascoltare il consiglio dell’azienda dopo il voto sul ricorso contro il taglio dell’esecutivo dei 150 milioni del canone? L’autonomia vale solo nei giorni di festa, per riprendere una felice espressione di Pietro Ingrao?
Fonte: Il Manifesto