Duemila miliardi di dollari di fatturato su base annua, con le emissioni obbligazionarie sestuplicate dal 2010 ad oggi. È il giro d’affari della finanza islamica, forse il ramo più redditizio dell’economia di matrice etica. Che continua a crescere mentre l’Italia sta a guardare. Le ragioni? “Stereotipi e anni di propaganda politica”
TORINO – La morale della favola è che siamo tagliati fuori. Anche se quasi nessuno ce lo dice chiaramente, ad oggi l’Italia continua ad autoescludersi da un giro di affari che vale circa duemila miliardi di dollari l’anno. A tanto ammonta, nel 2014, il fatturato della finanza islamica; due parole, queste ultime, che – in tempi di crisi economica ed emergenza umanitaria in Medio Oriente – sono potenzialmente in grado di procurare un reflusso gastrico anche al più progressista dei liberal. E il problema in effetti sta tutto qui. Perché, banalmente, è proprio il pregiudizio a tracciare la linea di demarcazione che separa i paesi che con l’Islam fanno affari (come l’Inghilterra, l’Irlanda o la Germania) da quelli che, come noi, restano a guardare.
Ne è convinto Alberto Brugnoni, ex direttore di Merrill Lynch bank e fondatore di Assaif, primo ufficio di finanza islamica a operare in Europa; che, dal 1986, è impegnato in grossi progetti di imprenditoria responsabile, come quelli per la riqualificazione delle discariche siriane di Damasco, Homs e Aleppo, o per la facilitazione dell’accesso alla proprietà immobiliare dei palestinesi di Cisgiordania. “Come sempre – spiega Brugnoni – la discriminante è politica e culturale. Tecnicamente, la finanza italiana sarebbe in grado di emettere sukuk (termine arabo che si traduce letteralmente in obbligazioni) anche domani mattina. Ma, a differenza di quanto si tende a credere, la finanza esiste solo dove c’è un accordo politico. E per anni una buona parte della nostra classe politica ha continuato a ripeterci che gli immigrati rubano e ci tolgono il lavoro. Ora, però, i tempi indiziano finalmente a essere maturi per un cambiamento”. Per questo, Brugnoni, in collaborazione con la Città e l’Università di Torino, ha voluto che fosse proprio l’Italia a ospitare il Forum della finanza islamica del 2014; una due giorni di incontri e tavole rotonde che da ieri, nel Capoluogo sabaudo, sta mettendo a confronto 20 esponenti di rilievo del mondo finanziario internazionale. “È la prima volta – sottolinea – che uno di questi incontri viene promosso da una pubblica amministrazione al di fuori dei paesi arabi. E questo è indice di uno straordinario cambiamento culturale”.
Sarà bene, a questo punto, chiarire cosa si debba intendere per “finanza islamica”; specie considerando che, dopo sei anni di crisi economica, l’opinione pubblica guarda con sospetto il mondo finanziario, ancor prima di quello mussulmano. Secondo Brugnoni, che nei primi anni 80 abbandonò il colosso Merrill Lynch per fondare l’Assaif, “si tratta di pura e semplice finanza etica, ispirata da principi di tipo religioso”.
“Tutto nasce dalla necessità di sviluppare un sistema compatibile con la Shari’a – continua – la legge coranica. Che vieta ai mussulmani di applicare interessi sui prestiti e promuove al contempo la responsabilità sociale d’impresa”. Per ovviare a questa necessità, il mondo islamico ha sviluppato un prodotto finanziario su misura: il sukuk, una sorta di obbligazione senza interessi, che genera profitti da progetti eticamente sostenibili e affonda le sue radici storiche nel periodo dell’Islam classico, tra il VII e il IX secolo dopo Cristo. A dispetto di alcune previsioni non proprio rosee, nel giro di quattro anni le emissioni di sukuk sono lievitate dai 50 miliardi di dollari del 2010 ai 300 del 2014. Nel frattempo, l’anno scorso, Gran Bretagna e Lussemburgo sono stati i primi paesi occidentali a emettere bond conformi alla Shari’a, per un valore rispettivo di 200 milioni di sterline e 200 milioni di euro.
“In Italia – spiega Brugnoni – ci sono almeno venticinque società quotate in borsa che sono giudicate, in certa misura, compatibili con la Shari’a: vale a dire, ad esempio, che non investono in armamenti e non applicano tassi d’interesse. Ma ad oggi nessuna di queste ha mai emesso un sukuk. Ora, però, l’interesse delle imprese italiane per la finanza islamica è in netta crescita. E ciò accade per ragioni demografiche e sociali, prima ancora che economiche: mentre la popolazione mussulmana cresce al doppio della velocità rispetto al resto del mondo, la finanza islamica arriva a coprire il 15 per cento del Pil mondiale. E in questo preciso momento, man mano che le seconde generazioni raggiungono l’età adulta, ci sono 260 milioni di persone in movimento, che si spostano da una parte all’altra del pianeta. La maggior parte delle quali è di fede mussulmana ”.
E a perdere un’opportunità, assieme alle imprese e al sistema finanziario, ci sono anche fondazioni ed enti di beneficenza. Perché, oltre a vietare i tassi d’interesse e a stimolare la responsabilità d’impresa, il Corano prescrive che ogni fedele devolva una parte dei suoi profitti a opere di carità. “A dirla tutta – precisa Brugnoni – si parla di donazioni di diverso tipo. Nell’Islam c’è l’obbligo della zakat, ovvero di ‘purificare’ la propria ricchezza, devolvendone il 3 per cento su base annua. C’è poi la sadaqah, l’equivalente della nostra elemosina; che è volontaria ma caldamente raccomandata dal Corano, e dunque molto diffusa tra i fedeli. Oltre, naturalmente, alla comune beneficenza. Quel che è certo è che, dati alla mano, nella graduatoria dei paesi più generosi, quelli mussulmani risultano oggi al primo posto nel mondo”. E l’Italia? “Glie enti e le fondazioni italiane – conclude Brugnoni – intrattengono rapporti quasi nulli con il mondo economico islamico”. Vale a dire che, anche in questo caso, la morale della favola è la stessa. Siamo tagliati fuori. (ams)