Travolta dalle critiche la Corte di Cassazione ha depositato ieri una nota con la quale sposta la responsabilità della sentenza riguardo il disastro ambientale sull’accusa: in sostanza i fatti imputati risalirebbero agli anni ’60 e per tale motivo sono prescrivibili. La prescrizione, ha detto il procuratore non risponde alle esigenze di giustizia ma il giudice deve scegliere la via del diritto, non della giustizia. Pensare che qualcuno ancora si illude che diritto e giustizia vadano di pari passo! In ogni caso la Corte sembra rassicurare: “La nostra sentenza è stata sul disastro, non sui morti”. E allora perché tanto rumore? Perché le grida di dolore?
Questa sentenza è una minaccia, il risultato di un errore; spaventa perché i suoi pilastri poggiano su di un terreno inquinato. Assistiamo infatti in questi giorni ad una duplice falla che inceppa il funzionamento della macchina: il potere giudiziario per non piegarsi alla necessità di giustizia è costretto a piegarsi alle azioni di uomini come Schmidheiny ritrovandosi così ad assecondare la loro fame di profitto; il potere legislativo si è rivelato ancora una volta incapace di risoluzioni immediate in quanto necessarie, arrivando quando è forse ormai troppo tardi ad annunciare che le regole del gioco, la legge sulla prescrizione, vanno cambiate. È la solita logica dell’emergenza secondo Roberto Saviano. Ammettiamo che in seguito “la sentenza sui morti” dell’Eternit avrà esito completamente diverso e che in questo caso diritto e giustizia andranno a coincidere; supponiamo che Schmidheiny sarà riconosciuto responsabile della morte dei lavoratori e che nessuna legge sbagliata come la ex-Cirielli si intrometterà. Sarebbe una vittoria ma intanto l’eterno sconfitto del bel paese rimane l’ambiente. L’ambiente in cui gli uomini vivono, modificato ed inquinato fino a divenire la causa della morte degli uomini stessi.
I processi per disastro ambientale in Italia non sono facilmente destinati a concludersi a favore dell’ambiente e quindi delle persone. In questo caso siamo di fronte ad un processo in cui per il primo e il secondo grado l’imputato avrebbe dovuto risarcire con 20 milioni di euro la Regione Piemonte nonché con 30,9 milioni di euro Casale Monferrato. La Cassazione ha invece annullato con la prescrizione, pena e risarcimenti. Dunque cosa accadrà se ciò dovesse essere confermato? Se i giudici avevano stimato quelle cifre significa che esse erano quantomeno necessarie: chi le sborserà se non Schmidheiny? La risposta è semplice, i cittadini.
È Guariniello a suggerire similitudini tra questo processo e quello alla Montedison conclusosi nel 2007 e riguardante il disastro provocato a Porto Marghera. E allora è il caso di fare un passo indietro: nel polo industriale di Marghera un’altra sostanza, il CVM-PVC provocò la morte di 157 operai. Anche qui i dirigenti sapevano. Erano accusati anche loro di disastro ambientale ma all’allora pm Felice Casson fu risposto già in primo grado che il reato non sussisteva. Non che l’inquinamento non fosse presente o che esso non fosse stato provocato dalle industrie ma che il reato non fosse imputabile. Perché? Lo chiarisce, confermando il pronunciamento del I° grado, la corte d’Appello: indubbiamente, le norme indicate dagli appellanti offrono un panorama dei più significativi tentativi fatti dal legislatore dell’epoca [tra gli anni ’60 e ‘70] per tutelare e salvaguardare la salubrità dell’ambiente e per proteggere il territorio dalle varie forme di inquinamento. Tuttavia nessuna delle disposizioni indicate sembra dare una risposta adeguata al problema e cioè se nel periodo anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 fosse in qualche modo individuabile una norma agendi alla quale i nostri imputati [Eugenio Cefis presidente Montedison dal 1971 al 1977 in primis] avrebbero dovuto attenersi[1].
Prima dell’82 insomma non ci sarebbe stata nessuna legge sufficientemente adeguata a far sì che le imprese di Porto Marghera si sviluppassero non solo secondo le regole del profitto ma anche nel rispetto dell’ambiente e delle persone che lì, oltre a lavorare, vivevano.
Quindi anche in questo caso i danni ambientali ci sono ma non ci sono le leggi e il diritto non può sottomettersi alla giustizia. Nessun risarcimento sentenziato dai giudici, solo una somma irrisoria ceduta dalla Montedison al Ministero dell’Ambiente. Cifre ridicole e che di certo non scomodavano i conti in banca dei responsabili. Lo Stato, che ha finanziato le imprese a Porto Marghera sin dal 1917, si è ritrovato a pagare i danni da esse provocati perché non ha legiferato con lungimiranza. Gianfranco Bettin, oggi Assessore dell’ambiente a Mestre ed allora in prima fila contro le industrie che hanno ucciso persone e luoghi, si occupa ancora di Porto Marghera: la devastazione industriale “ha lasciato un’eredità che è pesantissima” sostiene e aggiunge che “chi vuole venire a investire deve prima fronteggiare la questione della bonifica del terreno che non è risolta”. Ma per bonificare tutta Porto Marghera ci vorrebbero “decenni o secoli” ed è “una cosa enorme, costosissima”. Anche per Casal Monferrato e per tutti gli altri insediamenti industriali Eternit potrebbe valere questo discorso e dopo il processo lo sforzo di risollevare queste aree potrebbe essere ostacolato da fattori simili a quelli che descrive Bettin: “si vede come si intreccino leggi, procedure, interessi, strategie industriali differenti, mancanza di una politica industriale nazionale con scelte locali”. Così, lo sforzo degli uomini e delle donne che si occupano e si occuperanno dei luoghi devastati dalle scelte di Schmidheiny non è cosa da poco e comunque vada il processo, sarà un duro lavoro. Certo, se solo a pagare fosse il responsabile, debellare l’inquinamento e provare a far rivivere quei luoghi sarebbe ancora più edificante ma la legge voluta da Berlusconi nel 2005 per ora non lo consente. A Porto Marghera Bettin non molla anche perché “l’alternativa è lasciar marcire ciò che non lo merita e che ha potenzialità importanti. Non lo meritano quelli che ci hanno sofferto e ci sono morti[2]”. Questo sentimento, che rende persone e ambiente un tutt’uno, che vorrebbe veder risorgere l’ambiente perché non può veder risorgere i propri cari, forse spiega come mai si sia alzato il grido “Vergogna, vergogna” in aula. Spiega come mai tanto dolore se la giustizia e le leggi non funzionano.
[1] Per consultare la sentenza di I° e II° grado si veda il sito www.petrolchimico.it
[2] Intervista del 7-3-2014 presso il Municipio di Mestre.