Sedotta e abbandonata, l’emittenza locale. Corteggiata quando il sistema politico si reggeva sul rapporto con il territorio, dimenticata quando la scelta delle leadership ha preso ben altre strade di legittimazione. In verità, la crisi di oggi –legata al pasticciaccio delle frequenze assegnate per il digitale nel 2012 e richieste indietro dallo Stato per via delle interferenze con i paesi confinanti- ha origini nell’antichità, nel medio evo e nella fase più moderna del sistema radiotelevisivo. Alle origini, dopo la sentenza della corte costituzionale del 1976 che aprì il fortilizio del monopolio della Rai con l’apertura dell’ambito locale ai privati, fu la luce, coperta rapidamente dalla concentrazione in poche mani del potere.
Fino all’ (ir)resistibile ascesa della Fininvest di Berlusconi, seduta rapidamente sulla poltrona del dominio: una poltrona per due, condivisa con un servizio pubblico in gran parte omologato alle culture commerciali. In pochi anni, insomma, il villaggetto globale italiano perse tutta la sua ingenuità, per diventare un prepotente meccanismo di condizionamento o persino soggetto politico in proprio. Fino alla Gasparri del 2004. Resa vana la concorrenza sul piano nazionale, l’emittenza locale fu progressivamente sospinta verso le periferie dell’impero. Pochissima pubblicità, risucchiata dai tentacoli del duopolio, assenza di ogni strategia finalizzata a valorizzare la comunicazione locale: la pietra preziosa del mosaico, l’unica alternativa fondata al risucchio della globalizzazione. Decimate nella lunga traversata nel deserto, le stazioni private si sono ridotte un po’ di numero, ma soprattutto hanno perso occupati – da ultimo 3/400 giornalisti, il doppio almeno di tecnici, ma si legga il crudo rapporto della Slc Cgil e dell’Associazione Bruno Trentin – e forza d’urto nel consumo di massa. E sì, perché il passaggio alla diffusione digitale è stato gestito come una mannaia, piuttosto che come l’avvio dell’età matura. Tra l’altro, chissà quale bizzarra logica portò il governo Berlusconi (conflitto di interessi con geometrica potenza) a preferire uno switch off spezzatino crucis piuttosto che la via maestra del cambio di generazione tecnologica.
Negli Stati uniti, l’amministrazione Obama guidò la transizione –avvenuta per tutto il paese il 12 giugno del 2009- con determinazione, mettendo a disposizione squadre di volontari per aiutare i cittadini a sintonizzarsi sui nuovi canali. No. Nella piccola Italia il caos regnò sovrano e a farne le spese furono i soggetti deboli, i locali. Cui furono attribuite frequenze spesso di risulta o persino prive del coordinamento internazionale. Peggio, requisite salvo indennizzo (ma quanto e quando?) per far posto alle esigenze dell’asta per i gestori di telecomunicazione. Quella che andò bene per le casse pubbliche, in cui entrarono oltre quattro miliardi di euro dai rialzi. Non così è stato per la gara delle frequenze televisive, praticamente fallita. Tant’è che il sottosegretario Giacomelli avrebbe ipotizzato (?) di prelevare porzioni di quella torta per dare qualcosa alle emittenti, che teoricamente dovrebbero restituire i propri beni –pur assegnati per vent’anni nel 2012- entro la fine del 2014. Va ricordato che la gara fu chiesta dall’Europa, per superare una procedura di infrazione tuttora in corso. Per la mancanza di pluralismo, appunto. La radiofonia va un po’ meglio, e lì il digitale non ha prodotto disastri. Anzi. Ma il quadro è di allarme rosso. Complice il taglio dei fondi previsti dalla legge 448 del 1998 per il settore, il buio è anche a mezzogiorno.
Fonte: “Il Manifesto” di mercoledì 19 novembre