Discriminazione e violenza sulle donne: le raccomandazioni internazionali glissate dall’Italia

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Praticamente un coro. Da tutte le istituzioni internazionali di rilievo, le raccomandazioni all’ Italia sulle questioni di genere rimbalzano con consistenza inesorabile da New York e Ginevra (sedi Onu), a Strasburgo (sede del Consiglio d’Europa) a Bruxelles. La retorica degli impegni, reiterati dai governi che negli anni si sono succeduti, e’ corrisposta—anche questa con coerenza indiscutibile—alle carenze, errori, ed omissioni nelle applicazioni concrete. Il semestre di presidenza italiana Eu si configura anch’esso come un’occasione persa o presa sotto gamba rispetto all’attuazione  di politiche di genere volte a produrre un cambiamento sostanziale nella vita delle donne italiane in tutte le aree-chiave che includono disuguaglianze, povertà e lavoro, educazione, salute, sicurezza sociale e risorse ambientali. Lacune, queste, che molte organizzazioni e ed esperte della societa’ civile italiana hanno messo in evidenza a luglio in un rapporto che esamina il progresso realizzato nell’ultimo quinquennio in merito all’attuazione delle indicazioni offerte dalle cinque conferenze mondiali sui diritti delle donne.

E’ vero che l’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne (entrata in vigore ad agosto).  E’ anche vero che il paese si e’ dotato di una legge attuativa della Convenzione.  A fronte del vergognoso numero di femminicidi in Italia, la legge e’stata assemblata in tutta fretta  e senza una valutazione credibile della complessita’ del fenomeno violenza che a quelle manifestazioni estreme e’ sottesa. Glissando sulle valutazioni ONU che ascrivevano l’incremento di femminicidi al “fallimento delle autorita’ dello Stato” nel garantire protezione adeguata a donne che erano state vittime di violenza” e quindi a carenze sistemiche e strutturali, la legge ha assunto sin dalla sua concezione e cornice (nasce in un pacchetto di provvedimenti miranti alla sicurezza), un carattere emergenziale/securitario.

C’e’ da stupirsene?  In verità, no: basti pensare che il dibattito su una legge cosi’ importante si e’ tenuto con scarsa consultazione di quei settori della societa’ civile che da decenni sono impegnati a combattere e affrontare la violenza di genere. Alcune delle raccomandazioni piu’ salienti delle esperte sono state o sottovalutate o escluse.  Tra queste vanno annoverati gli appelli ad affrontare la violenza sulle donne con riforme profonde mirate a rimuovere la discriminazione e l’ineguaglianza di genere  che la rendono possibile e, in certi casi, la tollerano.  Al centro delle richieste della societa’ civile era il rispetto dei diritti umani delle donne quali il diritto alla vita, all’integrità psicofisica, alla libertà sessuale, all’eguaglianza sostanziale in tutte le sfere della vita pubblica e privata, incluso il lavoro, l’accesso alla giustizia, e a rimedi efficaci quando stereotipi, discriminazione e diseguaglianza ledono tali diritti. In sostanza, si trattava di rivendicare le quattro “P” promosse dagli strumenti e meccanismi internazionali, ovvero promozione e protezione dei diritti, unitamente alla prevenzione e penalizzazione delle violazioni di quei diritti.  Insomma, cio’ che si voleva ottenere (o perlomeno avviare) era la comprensione e la rimozione degli ostacoli sistemici che sbarrano la strada al benessere delle donne. Tale processo di comprensione ha bisogno, in primo luogo, di un serio sforzo da parte delle istituzioni italiane di analizzare le proprie carenze, di fare leva sui propri punti di forza, di coinvolgere interlocutori qualificati, di uscire dall’inerzia burocratica e culturale che valuta ogni progresso e persino le sollecitazioni internazionali con sospetto.  Leggi e iniziative regionali hanno cercato di tappare alcune delle falle piu’ evidenti. Seppur meritorie, si tratta di misure a macchia di leopardo che non hanno ancora superato il test dell’efficacia applicativa e sostenibilita’.

In questa prospettiva, il fallimento dei governi italiani risalta vistosamente se si considera l’imperativo del mainstreaming, ovvero la necessita’ riconosciuta e sostenuta da tutte le organizzazioni internazionali e le buone pratiche nazionali, di iniettare l’ottica di genere in ogni iniziativa, misura e norma dell’azione dei governi. L’istituzione-vettore del mainstreaming, il ministero/dipartimento per le pari opportunita’, in Italia ha subito invece un progressivo declassamento (ma verrebbe da dire “svuotamento”) nelle gerarchie istituzionali – e quindi nel suo peso politico e negoziale – malgrado le proteste del movimento delle donne.   Ne’ ha dato fiducia la scelta del premier Matteo Renzi di avocare al suo ufficio la delega delle pari opportunita’. Lungi da essere quel segnale politico forte che forse il governo intendeva lanciare, questa decisione ha fatto si’ che il  portafoglio pari opportunita’ languisse nell’incuria e nel procrastinamento fino ad ottobre quando, infine, il presidente del Consiglio ne ha nominato una referente, la deputata Giovanna Martelli la cui capacita’ di uscire dalla bonaccia dell’amministrazione sulle politiche di genere richiederà studio e impegno.

Un passo nella giusta direzione il governo Renzi lo ha compiuto nell’esigere “affirmative action”, le cosiddette quote rosa, nella composizione dell’esecutivo. Inoltre, le donne hanno oggi maggiore rappresentanza ai vertici delle imprese di stato e private e nei loro consigli d’amministrazione. Tale progresso, tuttavia, non ha avuto un effetto a cascata nell’empowerment delle donne italiane impegnate nel mondo del lavoro e non. A febbraio del 2014 era occupato soltanto il 46,6% delle donne, a fronte del 64% degli uomini. Tutte le donne residenti in Italia debbono sempre piu’ fare i conti con la precarieta’ del lavoro, il maggior carico di responsabilita’ che l’erosione del sistema del welfare ha causato, gli effetti della crisi economica che ha assottigliato il loro potere di acquisto e negoziale.

Il loro disagio dovrebbe essere affrontato come priorita’ assoluta e con politiche mirate e durature, piuttosto che con proclami di buona resa mediatica, ma di esili effetti sostanziali.

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