E’ tutta colpa della comunicazione, e forse addirittura di un frettoloso comunicato stampa, se il processo sul terremoto dell’Aquila è diventato un pasticcio tanto doloroso quanto inestricabile. Non si tratta soltanto del giudizio rovesciato rispetto al primo grado, ma della materia stessa del processo, che qualcuno ha letto come un processo a scienziati che non erano stati in grado di prevedere un terremoto, fenomeno che –notoriamente- la scienza attuale non è in grado di prevedere. Questa parodia interpretativa si è diffusa anche nella comunità scientifica internazionale, che ha considerato l’Italia ferma al processo contro Galileo Galilei, condannato per eresia per aver sostenuto, non senza sarcasmo, la supremazia del sistema copernicano rispetto a quello tolemaico.
Come si possono processare degli scienziati per non aver previsto qualcosa di imprevedibile? Non si può. Il processo celebrato a l’Aquila, sul terremoto che ha distrutto la città il 6 aprile 2009 ed ha fatto 309 vittime, ha infatti un segno esattamente opposto. Se un terremoto non si può prevedere non si può nemmeno dire che “non” ci sarà, come invece, con una certa ambiguità comunicativa si è fatto. L’origine del pasticcio, che ha avuto conseguenze catastrofiche, sta nell’intreccio oscuro, malato e tanto frequente, tra politica e comunicazione, alla voglia pazza di utilizzare ai propri fini propagandistici la credibilità di scienziati autorevoli, per indirizzare l’opinione pubblica. Nella primavera del 2009 l’Aquila tremava da mesi dentro uno sciame sismico che sembrava interminabile.
Un tecnico, Giampaolo Giuliani, recuperando una vecchia teoria basata sul gas radom, che la comunità scientifica considera del tutto infondata, aveva lanciato l’allarme su un’imminente scossa devastante, innescando ulteriore ansia e sconcerto nella popolazione. Ma il governo di allora –come tutti i governi- era aprioristicamente ostile a qualsiasi messaggio che potesse sollevare inquietudine perché dovevamo vivere nella migliore delle Italie possibili. Ecco, allora, che scatta una poderosa ed abile operazione comunicativa, che per essere più forte e credibile, si traveste di “scientificità”. Per demolire i messaggi ansiogeni del tecnico Giuliani, sui quali i media si gettavano come cani affamati, l’allora responsabile della potentissima Protezione Civile, Guido Bertolaso, e il suo vice, Bernardo De Bernardis (l’unico condannato, anche in secondo grado, a due anni e la non menzione) escogitano una mossa geniale: convocano in fretta e furia una riunione di altissimo livello, chiamando eminenti scienziati e lo stesso sindaco della città.
La riunione, alla quale gli scienziati si presentano con una copiosa documentazione, dura un’oretta e viene chiusa in fretta perché De Bernardis deve presentare ai mass media un comunicato stampa del tutto tranquillizzante. Missione compiuta. Purtroppo, pochi giorni dopo arrivò davvero la scossa devastante e non pochi aquilani, tranquillizzati dalla potenza comunicativa del governo, restarono in casa anche dopo la prima scossa restando uccisi in quella successiva. Il “mandante” di quella clamorosa operazione comunicativa ormai è quasi dimenticato; i suoi esecutori forse saranno condannati; ma quale è stato il ruolo degli scienziati, assolti perché “il fatto non sussiste”? Naturalmente sono “innocenti”, ma rischiano di aver tradito il loro ruolo, di essere stati distratti e superficiali sul piano della comunicazione, perché è materia che non li riguarda, dimenticando che Galileo Galilei, “il maestro di color che sanno” nella scienza moderna, fu anche e forse soprattutto un formidabile comunicatore, capace di diffondere e divulgare risultati e metodo della nuova scienza. E forse proprio per questo fu condannato dal Sant’Uffizio.
Questi autorevoli scienziati si sono dimenticati di controllare se le loro parole venivano deformate da chi voleva strumentalizzarli e piegarli alla propria opinione (ladoxa è il contrario della certezza scientifica). Adesso sono stati assolti, ma forse –senza la minaccia di torture, come avvenne al vecchio Galilei- si sono distratti o piegati alle lusinghe del potere ed hanno abiurato al rigore del metodo scientifico e all’obbligo della sospensione del giudizio (epoché) in assenza di prove e dimostrazioni adeguate e condivise. E così, il rapporto tra politica e scienza resta faticoso e a tratti pericoloso.