La testimonianza che Giorgio Napolitano (presidente della Repubblica che è ormai in uscita, essendo stato rieletto al termine del primo mandato, è stata importante non tanto per le cose che ha affermato ma anche per le domande a cui ha ritenuto di non poter rispondere. Sulla lettera del giugno 2012 che il suo leale consigliere, l’ex magistrato Loris D’Ambrosio, gli scrisse “un uomo ormai sconvolto, profondamente, annunciandogli le sue ormai necessarie dimissioni per non diventare l’utile scriba”, usato come scudo di “indicibili accordi tra il 1989 e il 1993”, ed è proprio quello che il Capo dello Stato ha detto ai giudici di Palermo quando lo hanno interrogato nella sala dorata del Quirinale a Roma. Ed è uno dei passi più importanti del colloquio che si è svolto nelle tre ore che hanno guidato i giudici nel lungo colloquio tra i magistrati e il Capo dello Stato, il quale ricorda di non aver avuto spiegazioni da parte del suo consigliere giuridico (che pure era un magistrato di così grandi qualità e di alta sapienza giuridica ma non esclude che altri potrebbero in effetti conoscere i segreti di quella lettera.
Il pubblico ministero Teresi gli dice: “Ma come spiega, signor Presidente, che, se avesse avuto in mano elementi non ipotetici, avrebbe saputo quale era il suo dovere ed andare subito all’autorità competente e fornire elementi utili a livello giudiziario.” Per il presidente della Repubblica quello era stato un “fulmine a ciel sereno” e da quel momento il tormento e il travaglio del Capo dello Stato era diventato il tormento e il travaglio del presidente che, a un certo punto, dice ai magistrati che si sente diviso tra il dovere di difendere le prerogative del suo ufficio e, d’altra parte, è convinto che sia suo dovere contribuire con tutte le forze alla trasparenza della sua carica e all’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. E, sull’onda di queste dichiarazioni, Napolitano confessa ai magistrati di essersi chiesto più volte se “qualcuno sapeva che Falcone doveva recarsi da Roma a Palermo più volte e se qualcuno sapeva o aveva saputo che il neodirettore degli Affari Penali al Ministero di Grazia e Giustizia era ormai sicuro che i suoi viaggi nella capitale siciliana si sarebbero prossimamente diradati a seguito del trasferimento di sua moglie Francesca Morvillo a Roma.
Se qualcuno dei suoi assassini lo sapesse, questo renderebbe più comprensibile la loro scelta di compiere la strage nella trasferta del 29 maggio dalla capitale alla Sicilia piuttosto che nella sede in cui l’ex giudice istruttore lavorava da qualche mese. Il presidente della Repubblica nulla ha ritenuto invece di poter dire su eventuali complici politici della strage né sul significato che quell’eccidio terribile avesse assunto nella strategia di scontro tra i vertici mafiosi corleonesi e l’esecutivo del tempo presieduto da Giulio Andreotti. Si è limitato a indicare l’ala più aggressiva della mafia corleonese come autrice del delitto che arrivava dopo altri assassini “eccellenti” (basta pensare, per limitarsi a pochi esempi, a quelli cui persero la vita con le scorte il presidente della Regione Sicilia, il democristiano Pier Santi Mattarella nel 1979 e tre anni dopo il segretario regionale del partito comunista italiano Pio La Torre).
Ma nulla ha ritenuto di poter dire né sui politici alleati dei vertici mafiosi che pure senza dubbio c’erano né sul grande ricatto che oggettivamente i mafiosi riuscivano a realizzare contro le istituzioni politiche in Sicilia ma soprattutto a livello nazionale, contro i magistrati impegnati e quelle forze parlamentari impegnate da decenni contro le associazioni mafiose e la P2 di Licio Gelli. Da questo punto di vista cercare di usare, come già incomincio a vedere ,la sobria deposizione del Capo dello Stato per mettere in dubbio che ci sia stato da parte di Riina e a Bagarella allora ai vertici di Cosa Nostra, per far smettere l’applicazione della legislazione speciale(a cominciare dall’applicazione generalizzata dell’articolo 41 bis ai detenuti per mafia) e arrivare a una sorta di accordo: fine delle stragi e, in cambio, alleggerimento del carcere per i mafiosi, è ormai difficile se non impossibile di fronte a testimonianze e documenti che si stanno accumulando nel processo in corso a Palermo. Come cittadini, fedeli alla costituzione repubblicana, prima ancora che come studiosi di storia, speriamo che il processo vada avanti e dimostri quale pericolo ha corso allora la democrazia nell’Italia repubblicana.