Celebrando la giornata mondiale dell’Onu come “fine dell’impunità per i crimini contro i giornalisti” si parte sicuramente da un dato reale e agghiacciante, che cioè per il novanta per cento i responsabili non si conoscono e soprattutto non pagano. Il silenzio è imposto da chi usa la violenza per chiudere le bocche scomode. Non solo omicidi, ma anche arresti, aggressioni, minacce. Quest’anno è fra i più dolorosi, ma la strage dura da tempo. Alla fine di ottobre i reporter uccisi sono già 115. Oltretutto, con l’avvento dei social netwok, il bilancio sale a 135 poiché ci sono da considerare anche i venti blogger morti (la gran parte in Siria).
E’ la strage dei testimoni, baluardo dell’opinione pubblica, un prezzo molto caro pagato alla libertà d’informazione. Quest’anno, fra le vittime, ci sono anche due nomi italiani (non succedeva da tempo): Andrea Rocchelli e Simone Camilli, in due teatri infuocati, Ucraina e Gaza, facendo così salire a undici il bilancio dei reporter italiani caduti al fronte. Oltre agli “incidenti”, nel 2014 si è aggiunto anche l’orrore targato Isis. Non più solo sangue dunque ma una scellerata propaganda in cui soprattutto i giornalisti sono stati presi di mira e usati per propagandare la loro folle dottrina.
Le vittime sono decapitate e mostrate in video accompagnati da progetti farneticanti. “Noi siamo uno Stato quindi ogni attacco contro di noi è un attacco ai musulmani di tutto il mondo” è stato il messaggio lanciato dallo Stato Islamico in Iraq e nel Levante” come didascalia alla fine orrenda di James Foley, un cronista di Boston rapito in Siria, e poi di Steven Joel Sotloff, un reporter ebreo americano sequestrato in Libia. Solo i primi, forse, di una lunga scia di predestinati alla vendetta del boia. Due sacrifici bestiali poiché proprio Foley e Sotloff erano noti per le battaglie contro i regimi di Saddam e Gheddafi. Soprattutto per chi si illude di poter trattare con certe bestie va ricordato che l’Isis molto più di al Qaeda sta facendo stragi senza appoggiare alcuna rivoluzione ma perseguendo l’idea di uno Stato a se stante attraverso un bagno di sangue per chi non si converte, rapendo bambini, vendendo donne al mercato e cercando di conquistare territori, soprattutto in Siria e in Iraq. Il dramma è che a dieci anni dalla morte di Enzo Baldoni non è cambiato proprio niente.
Già, l’Iraq. Cominciata nel 2003, la guerra sembra appena cominciata. Basti pensare che sono già trecento i giornalisti uccisi in Mesopotamia, gli ultimi dieci l’anno scorso, secondi nel bilancio complessivo soltanto a Gaza e alla pari con il Pakistan. L’aspetto più doloroso è rappresentato proprio dalle vittime in guerre “antiche” visto che anche in Afghanistan, nonostante più di tredici anni, anche nel 2014 sono state sei le vittime (quaranta in totale) che si affiancano ai conflitti più recenti, come in Ucraina o in Messico dove i reporter pagano il prezzo della denuncia contro i narcos. Particolarmente efferato il delitto di María del Rosario Fuentes Rubio, giovane medico e giornalista che collaborava con il sito di notizie “Responsabilidad por Tamaulipas”. Rapita e poi torturata è stata anche beffardamente umiliata: nel suo profilo twitter sono state diffuse due foto del suo cadavere.
Ma non ci sono soltanto gli omicidi. Ci sono anche i reporter arrestati, torturati, esiliati e imprigionati. Attualmente ci sono in carcere ben 367 giornalisti: 190 professionisti e quasi altrettanti (175) fra bloggers e netizens. Nettamente in testa per la pratica di mettere dietro le sbarre i dissidenti c’è sempre la Cina con un terzo del totale (104). Questa la classifica completa: 104 Cina – 33 Siria – 32 Eritrea – 27 Vietnam – 20 Iran – 14 Egitto – 9 Etiopia e Uzbeistan – 6 Arabia Saudita – 5 Bahrain e Somalia – 4 Russia e Turchia. Ma praticamente ci sono tutti i Paesi del mondo (esclusa l’Italia) ad avere almeno un reporter in carcere: dagli Stati Uniti a Israele, dalla Libia agli Emirati, dal Kenya alla Corea del nord.
In Italia resta molto alto l’allarme per i cronisti minacciati dalla mafia. Quattordici giornalisti attualmente vivono sotto scorta. Le regioni sono soprattutto tre dove imperversa la criminalità organizzata: Sicilia, Calabria e Campania. Ma il numero delle intimidazioni è molto più alto e offre alcune clamorose sorprese. Nel 2014 infatti sono stati ben 332 i giornalisti che hanno subito minacce secondo gli ultimissimi dati dell’Ossigeno per l’Informazione. Dal 2006 ad oggi sono stati registrati addirittura 2056 casi di particolare gravità. Ed ecco le sorprese se si analizzano le situazioni regionali. Le vittime più numerose (45) in Campania, seguono Sicilia (43) e Calabria (30), cioè le tre regioni considerate a più alto rischio mafioso. Nello stesso ambito vanno inserite anche Basilicata (34) e Puglia (31). Ma il dato più eclatante riguarda il Lazio che presenta il maggior numero di casi (addirittura 74, quasi il doppio della Sicilia), seguito dalla Lombardia (42, praticamente alla pari con la Campania) e dal Veneto (31). La conferma cioè delle infiltrazioni mafiose in ogni zona d’Italia. E segno che non ci sono più territori franchi o cosiddette “isole felici”. Un dato è certo: chiunque denunci i malaffari mette paura. E viene fatto fuori, in un modo o nell’altro.