Tecnologia e visionarietà nello spettacolo di scena al Teatro Argentina di Roma, ad inaugurazione d Roma Europa Festival
Anch’esso avversato da notevoli decurtazioni finanziarie (pubbliche e private), rispetto alle precedenti edizioni , il ventinovesimo anno di RomaEuropaFestival , inauguratosi il 24 settembre, procederà – si spera speditamente- sino a fine novembre, con una vasta programmazione di proposte drammaturgiche, coreutiche, musicali, arti della performance, ‘improvvisazioni’ ed happening eterogenei e tutti da vagliare, a prescindere dalle ‘garanzie di prammatica’ del suo direttore artistico Fabrizio Grisafia. In particolare, l’edizione in corso, dopo la burrascosa rottura con il Teatro Palladium (ex cuore pulsante del teatro di ricerca e sperimentazione, la più ardita o ermetica), avrà come luoghi di aggregazione il Teatro Argentina, l’Eliseo (‘bene culturale’, purtroppo a rischio chiusura), il Vascello, la Pelanda e i vasti spazi di Villa Medici.
Proprio nello storico spazio dell’Argentina, sede del Teatro Stabile di Roma, si inscenato lo spettacolo inaugurale, “Hamlet”, diretto da Andrea Baracco su drammaturgia di Francesca Macrì e con solo con la ‘supplenza’ di dieci personaggi ed interpreti (rispetto all’opera shakespeariana, che esige quasi trenta), tutti provenienti -e maturati- per difformi realtà teatrali, eterogenee e di difficile (ma sostanzialmente acquisiti) amalgama ed omogeneità espressiva . Quel che infatti si concretizza in scena è una sporta di ‘pianificazione’ ritmico-corale dei diversi canoni mimici, fonetici, mimesi e\o straneazione dei diversi ‘attori’ del raffronto collettivo. Né più , né meno come la raggiunta armonia d’una orchestra alla sua prima esperienza di ‘ensemble’. Di qui, la fusione di una rete di eccellenze e dialettiche idee di teatro, che- primo obbiettivo di regia- imbastiscono un ‘epicentro’ condiviso – ovvero dimostrare come il personaggio di Amleto, icona di infinite connotazioni, simbolo e riferimento dei culti e culture spesso divergenti , “possa vivere oggi, venendo portato in un teatro contaminato dal tempo, dove relazionarsi con la tecnologia, le sue valenze lisergiche, le sue sonorità metalliche, spesso esasperate” conquistino senza fanatismi o frastorni il più vasto pubblico
Gli interpreti, come dicevamo, provengono dalle compagnie e dalle scuole di teatro più dissonanti, ed allo stesso tempo collaborative, del panorama nazionale. Qui rappresentati da Lino Musella (Amleto) e Paolo Mazzarelli (re Claudio) della ‘Paolo Grassi’ di Milano, Andrea Trapani dei’ Biancofango’ – così come le complesse, rarefatti scenografie sono concepite una delle compagini ritenute di maggior spicco nell’ambito dell’ avanguardia- i Santasangre.
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Anche i costumi – come il planisfero ambientale, nel suo insieme- sono di taglio minimalista, post-moderno, di nessuna ‘utilità’ ad eventuali attese ‘decorative’, ben falcidiate della fredde, saettante luci di quinte e di palco (con citazioni da Bob Wilson), mentre i personaggi- nei loro monologhi o dialoghi- sono dotati di torce giganti che proiettano una luce calda sul pubblico, “con cui è indispensabile che non perdano mai un contatto diretto, quasi interpersonale”. Il palcoscenico, al dunque, è utilizzato nella sua’ totalità’, mentre alcune sequenze-chiave della tragedia si svolgono in un ambiente che va dal fondo della sala al palcoscenico, con gli spettatori me ‘coinvolti’ nell’intersecarsi di realtà e finzione. Nel suo insieme, tutto l’emiciclo dell’Argentina risulta dilatato da proiezioni- video, preferibilmente esposti ad ambientazioni ‘esterne’ alla convenzione drammaturgica (dall’astratto al decostruttivo) della ‘quarta parete’, senza che vengano mai sfidati i rischi della mirabilia e dell’esibizionismo estetico.
All’inizio dello spettacolo due attori sono sospesi sul palco, non si vedono altri volti, e dietro di loro scorre un filmato di montagne russe, ove, ad ogni discesa, sembra corrispondere quel sanguinario ‘precipizio’ già dettato dal Bardo : “Amleto è il conflitto, la sete di vendetta che cresce, la follia che supera qualsiasi forma di sentimento, amore compreso, e la morte di tutti, la caduta e il vuoto finale di una sconfitta collettiva”- annota il regista. Aggiungeremo che appare insita, nell’indole del ‘pallido principe’, la necessità di una sopravvivenza ‘umanistica’ e ‘umanizzante’ che preservi il diritto del dubbio e della follia ‘espletata con metodo’ anche all’estremità di un post-universo totalizzato dalla tecnologia virtuale, dalla supremazia dell’intelligenza telematica su quella dell’umano sentire. Profezie non peregrine e allusive di una contemporaneità che sfreccia speditamente verso lo stordimento ludico-lisergico, agghindato di irresoluti frastorni e fibrillazioni lisergiche, sapientemente utilizzate dai Grandi Fratelli, di volta in volta candidati allo spodestamento della memoria, dell’intelletto- unici beni per cui vale la pena battersi ancora. Contro demagoghi, oscurantismi e ‘cerchi magici ’ di vellutato (avvolgente) invito all’oblio. Un’avvertenza: pur se lo spettacolo è di lunga durata, i suoi tempi e cadenze sono sempre agili, veloci – e l’energia della messinscena, abbinata all’estrema naturalezza degli interpreti (nostri contemporanei) invita ad una fruizione modulata da gusto critico.