La speranza di giustizia è scivolata via un pomeriggio di ottobre, cinque anni dopo. Esattamente cinque anni dopo. La speranza di giustizia Ilaria Cucchi la arrotola con cura per conservarla e non lasciarla andare insieme a quelle parole pronunciate dalla Corte d’Appello di Roma. Il fatto non sussiste, il fatto non costituisce reato. Ilaria arrotola la gigantografia di Stefano sul letto di morte e la ripone mentre dice che non è finita, che non può finire in questo modo. È l’ostinazione di cinque anni passati ad insistere e a difendere la memoria del fratello. “Non posso credere che lo Stato non sia in grado di giudicare se stesso e di accettare il fatto che in questi cinque anni qualcosa è andato storto, che qualcosa al suo interno non ha funzionato.”
È l’ostinazione che si ripete e che si riproduce da Roma a Ferrara, a Varese. La stessa ostinazione che si riconosce negli occhi di Ilaria Cucchi, di Lucia Uva, di Patrizia Moretti, mamme e sorelle determinate ad andare fino in fondo e a ricordare allo Stato che qualcosa di sbagliato è successo e si ê ripetuto, che i loro cari erano sani quando lo Stato li ha presi in custodia ed erano morti quando lo Stato li ha restituiti.
Non è successo niente ha ripetuto sottovoce Ilaria mentre sua madre parlava di un fallimento, del fallimento dello Stato. Questa entità astratta che pretende di avere una forma che assomiglia ad ognuno di noi, e che di fronte ad una sentenza come questa si mostra controparte, ostile, nemica e ripropone il vizio antico di questo paese che non sa giudicare se stesso in un’aula di giustizia.
“Non è successo niente, dice Rita la madre, Stefano lo ritroviamo a casa ad aspettarci”. “Vogliamo solo giustizia, non vogliamo mettere in croce nessuno”, aggiunge Mario mentre abbraccia la moglie ed esce dall’aula. La famiglia dagli occhi azzurri se ne va, ma non ha intenzione di cedere. Se ne va con il dispositivo di una sentenza di assoluzione che toglie ogni certezza, che non trova responsabili per la morte di Stefano, che non spiega più neanche come è morto e toglie ogni significato a quella parola difficile che raccontava di una morte per mancanza di cibo: inanizione, come diceva il processo di primo grado. Ma ora non c’è più neanche quella di spiegazione.
E allora chi ha ucciso Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell’ospedale Sandro Pertini di Roma? Non sono stati i medici e gli infermieri del reparto di medicina protetta che pure erano stati condannati in primo grado per averlo abbandonato e lasciato morire di fame e di sete, non sono stati gli agenti di polizia penitenziaria in servizio al tribunale di roma già assolti in primo grado per il pestaggio.
La sola certezza è la confusione che regna su questa storia, sin dall’inizio. La storia di una indagine che ha scelto di non prendere in considerazione il racconto di alcuni testimoni che raccontavano le parole di Stefano quando diceva di aver fatto “il sacco in un’incontro di boxe” la notte del suo arresto. Una indagine che non ha considerato quella parola sul rapporto del 118: epilessia, scritta la notte del suo arresto anche se Stefano non ha mai sofferto di epilessia. E poi perché è stata chiamata quella ambulanza in piena notte nella caserma dei Carabinieri di Tor Sapienza non ce lo ha mai spiegato nessuno.
In aula, al processo di primo grado, è arrivata una ricostruzione parziale degli ultimi sei giorni di vita di Stefano Cucchi. L’impianto accusatorio centrato su un pestaggio nelle celle del tribunale raccontato da testimoni che hanno solo sentito senza vedere e sull’abbandono di Stefano fino al sopraggiungere della morte nella cella numero 16 del reparto di medicina protetta dell’ospedale Santo Spirito.
Nel fascicolo ci sono decine di perizie, le dichiarazioni di 150 testimoni, dodici imputati e, ora, nessun colpevole. Il procuratore generale nella requisitoria dava per certo il pestaggio di Stefano Cucchi ma dopo l’udienza di convalida del suo arresto, non prima come ipotizzato dai pm. Ad alimentare la confusione arrivano anche le prime dichiarazioni spontanee in cinque anni degli agenti di polizia penitenziaria accusati di aver picchiato Stefano Cucchi. Uno di loro dice che quando è arrivato al tribunale stava bene, nessun segno di percosse. E allora quando sono arrivate le botte che hanno causato i lividi sotto gli occhi, i segni sulla schiena, le lesioni della colonna vertebrale, le fratture a livello lombo sacrale?
Quelle botte non ci sono mai state, dice questa sentenza. Non è successo niente. Il fatto non sussiste.
Ilaria arrotola la memoria di suo fratello e la custodisce con cura. Ripete che non è successo niente e sottovoce aggiunge: “è morto di giustizia, una giustizia che non è uguale per tutti.”