Cessato il rombo dell’ultimo cannone, contate le vittime e i dispersi, che ne è stato delle donne che per cinque lunghi anni avevano saldamente tenuto in piedi quel che restava del nucleo familiare, protetto e sostenuto gli sbandati, i renitenti, i fuggiti dai campi di concentramento, i partigiani? E delle 35.000 partigiane, delle 70.000 dei Gruppi di Difesa della Donna che in modo organizzato, con le armi e senza armi, avevano partecipato, “compagne di combattimento”, alla Resistenza? La maggior parte osservò la montagna di macerie che si stendeva davanti a loro e decise che “bisognava rimboccarsi le maniche”. Che bisognava assumersi quella responsabilità personale e collettiva che, durante la guerra, avevano imparato ad esercitare. Che bisognava costruirla quella democrazia che avevano immaginato senza averla mai conosciuta.
Così entrarono nei Consigli comunali, qualcuna (pochissime) diventò sindaco.
Entrarono nei sindacati. Costruirono associazioni di sole donne per esercitarsi a essere protagoniste, elaborare propri programmi per cancellare le nefande discriminazioni cui erano state sottoposte da sempre, ancor prima del fascismo. Entrarono in Parlamento. All’Assemblea Costituente furono determinanti per ottenere gli articoli che sanciscono, nella Carta, la parità dei diritti.
L’ingresso in scena delle donne, il loro protagonismo nella ricostruzione, è quindi uno dei frutti più straordinari della Resistenza.
Di tutto questo si parlerà a Roma l’11 ottobre p.v., all’Istituto Luigi Sturzo, nel convegno promosso dall’ANPI intitolato: “Ricominciare – Donne che costruiscono 1945-1948”