Caro direttore,
Ieri mattina alcune testate giornalistiche (Corriere della Sera in testa)commentavano una sentenza del Tribunale di Milano destinata, a loro dire, a cambiare definitivamente il corso del contenzioso civile in materia di malpractice medica. Secondo la pronuncia, infatti, sarà il cittadino a dover provare, entro cinque anni dall’evento dannoso, la colpa del medico sul quale, a differenza del passato, non graverà più alcun obbligo probatorio.
Fino ad oggi, infatti, al cittadino era sufficiente dimostrare di essere entrato in “contatto” con il medico e di aver riportato un danno a seguito delle cure ricevute per poter agire, entro dieci anni, nei suoi confronti.
Alla base di una simile “rivoluzione” vi sarebbe la diversa qualificazione giuridica della colpa medica, non più contrattuale ma extracontrattuale in linea con quanto previsto dalla CD legge Balduzzi.
Non sono mancati i commenti più o meno coloriti da parte di esponenti delle varie categorie di medici: il Presidente OMCEO di Milano, Roberto Carlo Rossi ha parlato di “sentenza storica” destinata, tra l’altro, a far “venir meno alcune delle ragioni della cosiddetta medicina difensiva”. Qualche cronista, con toni vagamente nostalgici, ha sostenuto trattarsi di una sentenza destinata a “cancellare con un colpo di spugna un ventennio di giurisprudenza italiana”.
Due ordini di motivi mi portano a rettificare la portata di simili interpretazioni: il primo è legato al mio ruolo di Presidente di un’associazione da sempre convinta che alla base di un errore medico vi sia – quasi sempre – un errore di sistema il che dovrebbe limitare, prevalentemente, il contenzioso alle sole strutture sanitarie, salvi i casi di errore umano.
Il secondo motivo, è che la sentenza de qua ha definito qualche mese fa un giudizio introdotto proprio dal mio studio legale, il che mi spinge e rendere pubbliche le riflessioni su un provvedimento di sicuro interesse giuridico e, verosimilmente, destinato – almeno a Milano – a fare precedente.
A mio modo di vedere, più che cambiare tout court il corso delle pronunzie giudiziarie dell’intero stivale in materia di responsabilità medica (nel nostro sistema le sentenze non hanno il potere di fissare nuovi principi di diritto vincolanti) ha il pregio di fare chiarezza, attraverso un logico percorso argomentativo, sulla portata dell’art 3 della L.189/2012 (Legge Balduzzi) oggetto, finora, di traballanti interpretazioni giuridiche.
In particolare, si distingue nettamente tra responsabilità della struttura sanitaria (contrattuale) e responsabilità del medico(tendenzialmente extracontrattuale) il che comporterebbe che:
1) Se un paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso la struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto, la responsabilità di quel medico andrà ritenuta di natura extracontrattuale, ciò determinando un onere probatorio a carico del paziente ed un lasso temprale per agire ridotto a cinque anni;
2) Se nel caso suddetto, oltre al medico è chiamata in giudizio anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore del fatto illecito (il medico) ha operato, la disciplina andrà distinta (extracontrattuale per il medico e contrattuale per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento;
3) Tale diversa qualificazione, nasce dal fatto che l’articolo in esame – e la Balduzzi in generale – non ha alcuna incidenza sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata) che risponderà in via contrattuale nei confronti del danneggiato anche per colpa dei suoi dipendenti o ausiliari.
Come interpretare, in concreto, la portata di una simile pronuncia? A mio parere in maniera assai semplice: se il cittadino non è in grado di allegare un “contratto” (concetto su cui si dovrà molto discutere in futuro essendo lecito ipotizzare, soprattutto in ambito ambulatoriale, la conclusione di un contratto per “fatti concludenti”) e/o di dimostrare che il medico non abbia rispettato i protocolli, le linee guida e la buona prassi, meglio che desista dal coinvolgerlo in giudizio e limitare la sua azione, da proporsi entro dieci anni dal verificarsi del fatto dannoso, alla struttura sanitaria (pubblica o privata è indifferente) al cui interno si è verificato l’evento.
Spetterà a quest’ultima fornire la prova positiva che i danni patiti dall’attore non siano imputabili all’operato dei suoi dipendenti e/o ausiliari, rispondendo, in difetto, di inadempimento contrattuale ai sensi dell’art 1228 C.C.
Quindi, lungi dal rappresentare un freno alla cd medicina difensiva – che, per quanto mi riguarda, rappresenta invece l’altra faccia della medaglia di una corretta diagnosi differenziale, giacché i medici hanno il DOVERE di escludere, attraverso indagini approfondite, una malattia grave prima di diagnosticarne una minore – l’illuminata sentenza del Tribunale di Milano ha il pregio di voler riequilibrare un rapporto tra medici e strutture fino ad oggi sproporzionato, veicolando le azioni giudiziarie verso l’accertamento delle responsabilità non già del singolo medico (destinato, per definizione, nell’arco della sua carriera a commettere uno o più errori) ma della struttura sanitaria all’interno della quale – spesso per disfunzioni organizzative – l’errore si è verificato.
Un simile orientamento dovrebbe condurre ad un’implementazione radicale dei sistemi di prevenzione del rischio, giacchè se gli errori non diminuiranno e le strutture sanitarie italiane(la maggior parte delle quali NON assicurate) saranno le uniche a doverne rispondere, i cittadini vittime di errate prestazioni mediche rischieranno di trovarsi tra le mani sentenze di condanna perfettamente inutili, stante l’insolvenza cronica di ASL e Aziende Ospedaliere.
Presidente di Osservatorio Sanità