Quale giornalismo in Siria?

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Il 4 ottobre si è svolto all’interno del Festival dell’Internazionale a Ferrara, un incontro dal titolo Siria. Segnale interrotto. La discussione è stata moderata da Lorenzo Trombetta, esperto di questioni mediorientali e relazioni euro-mediterranee. Il giornalista vive a Beirut dal 2005 dove lavora come corrispondente per l’Ansa e collabora con diverse testate; gestisce inoltre il sito di notizie e approfondimenti SiriaLibano. Sul palcoscenico del Cinema Apollo sono sedute tre donne di cui Yara Bader e Maisa Saleh sono giornaliste siriane. Yara è la direttrice generale del Syrian center for media and freedom of expression; nel 2012 è stata arrestata in Siria dall’Air force intelligence e successivamente processata dalla corte militare a Damasco. Ha vinto il premio giornalistico Ilaria Alpi 2012.

Maisa ha lavorato come corrispondente per la Orient news television, seguendo la guerra civile in Siria da Damasco. Nascondendo la sua identità, ha condotto un programma settimanale di interviste ai rivoluzionari, occupandosi anche della resistenza non violenta della popolazione civile. Nel 2013 è stata arrestata e trattenuta per sette mesi dal governo di Bashar al Assad. Il terzo ospite è Eva Ziedan, un’archeologa siriana. Ha lavorato come mediatrice linguistico-culturale per le Acli di Udine. Collabora con il sito di informazione SiriaLibano[1].

Yara e Maisa non parlano l’italiano e della traduzione dall’italiano all’arabo e viceversa se ne occupa una straordinaria interprete. Lorenzo Trombetta specifica subito che nonostante la presenza di tre donne la questione di genere passa in secondo piano: la discussione vuole approfondire il tema del giornalismo in Siria ma in effetti si sarebbe potuta fare una conferenza solo sul ruolo delle donne nel paese arabo. Sarà per un’altra volta.

Si entra subito nel cuore della questione e alla domanda quale libertà di informazione in Siria risponde per prima Yara. La giovane giornalista parte da una situazione che conosce molto bene: l’organizzazione non governativa di cui è direttrice generale. Il Syrian center for media and freedom of expression ha iniziato a lavorare per tutelare la libertà di stampa in un momento storico in cui le ONG non sono nemmeno concepite dal regime di Assad. Il governo infatti, racconta Yara, ha proibito le attività dell’organizzazione arrestando Mazen Dawish[2] e altri membri dell’ SCM il 16 febbraio 2012. Mazen Dawish è un avvocato ma anche un giornalista: per questo non può entrare nell’Ordine degli Avvocati. Lavorava nell’ambito dei diritti umani e questo in Siria significa mettere a rischio la propria vita e quella della propria famiglia. Insomma i giornalisti continua Yara, sono sotto minaccia.

Maisa nel rispondere alla stessa domanda, apre la questione dei media occidentali ma prima ricorda che il giornalismo non è mai stato libero nel suo paese perché tutto, prima della rivoluzione, era controllato da Assad e dalla sua famiglia. È stato proprio con la rivoluzione spiega, che i cittadini hanno capito quale fosse la crisi vissuta dalla stampa siriana. All’inizio della rivoluzione il regime si è chiuso alla stampa straniera, mentre i siriani hanno provato a raccontare, a farsi ascoltare. Per questo vengono perseguitati, costretti a lasciare la Siria; molti di loro sono ancora in prigione. Maisa spiega che per riempire il vuoto mediatico che non dava voce alle ragioni del popolo, i cittadini stessi hanno iniziato a fare giornalismo. –Io sono laureata in infermeria. Poi con la rivoluzione, che veniva passata come una protesta settaria, ho capito che la nostre voce veniva occultata-. È stato lì che Maisa ha iniziato a scrivere: quando tutto voleva farle intendere di stare zitta lei ha iniziato ad informare.

Prima di rispondere Eva spiega il motivo per il quale ha scelto di parlare in italiano anche se questo significherà utilizzare una quantità inferiore e più semplice di termini: la prima volta che ha scritto riguardo la Siria era in italiano, spinta e sostenuta dal professore che la seguiva durante il dottorato. Un tributo all’Italia e al pubblico nostrano che la sta ascoltando, uno sforzo di comunicazione che mostra ciò di cui Yara e Maisa parlavano: Eva, pur essendo principalmente un’archeologa si fronte a ciò che sta accadendo nel suo paese sente la necessità ed il desiderio di informare, denunciare, di fare anche giornalismo. Racconta degli attivisti che nel 2011 sono stati arrestati: tra questi un vignettista è stato fermato in seguito ad un disegno ritenuto inappropriato dal regime e di lui da allora non si hanno notizie. Eva spiega che molti cittadini non solo hanno imparato a salvare persone che rischiano di morire sotto i loro occhi; sono diventati giornalisti cittadini pur avendo studiato altro. Di un mestiere che non conoscono una cosa certamente hanno capito: alcune parole non si possono usare, parole come rivoluzione. È meglio conflitto, agli occidentali piace di più sostiene Eva.

Lorenzo Trombetta evidenzia allora la difficoltà dei giornalisti generalisti occidentali nel contestualizzare la situazione nel paese arabo: non è sempre possibile riscrivere la storia della Siria e delle questioni che la riguardano ma è evidente lo iato esistente tra la complessità di ciò che accade e ciò che viene raccontato. Fa notizia il fatto che sia stato ucciso un europeo afferma il giornalista.

A questa riflessione Yara risponde che chi se ne è andato dalla Siria vede la difficoltà dei media occidentali rispetto alla questione siriana in questi termini: in base al paese di origine dell’articolo, che sia Irlanda o Italia, cambia completamente il modo di raccontare la catastrofe in corso nel suo paese la quale è paragonabile a quella della seconda guerra mondiale. A partire da queste premesse denuncia il fatto che nessuno abbia parlato della morte di tanti civili e giornalisti nel centro mediatico che dirige. Assad aveva giustificato quel raid sostenendo che chi vi lavorava non aveva l’autorizzazione per farlo. Ma loro erano innanzitutto civili. Nonostante questo la vicenda non ha fatto notizia. Sostiene invece Yara che a suscitare scalpore è stata l’uccisione da parte dello Stato islamico di alcuni occidentali, dando ragione alla precedente affermazione di Trombetta. Conclude dicendo che quello che accade in Siria vuole la popolazione o passiva o impegnata nel far vedere cosa succede. Queste tre donne hanno scelto la seconda opzione.

Alla parola Stato islamico la discussione si sposta dal tema della libertà di informazione alla nascita dell’Is ed alle sue azioni in Siria ed Eva trova un filo conduttore tra le due questioni: i siriani che non sono stati ascoltati sono attratti dall’Is che in Siria è denominato Daesh. Spiega che le persone sono state abbandonate da tutti, compresi gli occidentali e che la gente muore di fame. L’Is a Racca permette di vivere con uno stipendio e di non vivere nella paura dei bombardamenti. I civili non ancora entrati a far parte del Daesh afferma, ne sono attratti anche a causa del fatto che di esso si parla mentre di loro no. Non dare voce alla cittadinanza provoca rabbia e se l’unico modo per farsi ascoltare è far parte dello Stato islamico allora la tentazione di farne parte diviene spesso una decisione. Si entra nel Daesh anche per essere qualcuno, per essere ascoltati. La sordità è tale da spingere le persone a pensare che a prescindere da ciò che verrà compiuto ed affermato dall’Is, sia quello l’unico luogo dove poter ritrovare una soggettività. Riguardo tale sordità Yara aggiunge che in questa tragica situazione non il silenzio internazionale ma il non approfondire alcune cose sia grave. Più grave del silenzio.

Dal pubblico si alzano alcune domande tra cui una riguarda la presenza di freelance in Siria.
Lorenzo prende parola: -Quando parliamo di freelance parliamo di precari; si autofinanziano, pagano scuole che li preparino ad entrare in territori di guerra ma poi non hanno le garanzie e le tutele di chi è assunto. Aleppo è la città più pericolosa per i giornalisti e ciò a maggior ragione se si è precari: saremo massimo in dieci, siamo pochissimi-. La discussione procede e la stanchezza avanza; Yara si tocca i capelli e sfoga così la tensione accumulata. L’interprete invece non si ferma mai: è l’anello di congiunzione fra due potenziali silenzi che grazie a lei divengono racconto, dialogo.

Mentre noi che ascoltiamo apprendiamo qualcosa di significativo che però è relativamente lontano, queste tre donne straordinarie stanno comunicando esperienze vissute sulla propria pelle con una lucidità disarmante. La loro bravura non toglie le difficoltà e le sofferenze vissute. Hanno avuto anche la forza di far ridere il pubblico con una ironia intrisa come sempre di riso e di pianto. Maisa conclude questo importante incontro con parole non facilmente dimenticabili, forse il motivo principale di questo articolo: -Noi siriani siamo sfiduciati; è un gioco sporco quello portato avanti in Siria e non abbiamo fiducia in nessun governo. Ma io ho fiducia nei popoli. Il mio appello è che anche voi chiediate che la guerra in Siria finisca-.

[1] Le biografie sono presenti sul sito <http://www.internazionale.it/festival/protagonisti> ultima visualizzazione 11 ottobre 2014.
[2] <http://www.frontlinedefenders.org/node/24750 ultima visualizzazione 11 ottobre 2014. 


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