“Al passato grazie, al futuro sì” questo c’era scritto su un grande striscione posto all’ingresso dell’ex stazione Leopolda di Firenze. Era l’ ottobre del 2010 e da giovane attivista del movimento studentesco senza tessera di partito, durante un autunno piuttosto caldo vista l’ approvazione della riforma Gelmini sull’università (e con un Governo Berlusconi in forte crisi), cercavo disperatamente una politica con un diverso modo di rapportarsi con il mondo fuori dai partiti. Un qualcosa che potesse essere credibile e in sintonia con la mia generazione che tanto aveva (e ha ancora) bisogno di una politica interessata alle nostre priorità , una politica che si prendesse cura della rabbia che imprigiona il nostro presente e-perché no-che con noi si dividesse un po’ dalle ansie che gravano sul nostro futuro. Insomma: una politica che si prendesse la responsabilità di guardarci negli occhi e provasse a darci delle risposte.
Antonio, un amico grossetano trapiantato a Firenze per studio, mi invitò alla prima Leopolda: “Che fai fava, non scendi? Oltre al nostro bischero sindaho c’è pure un honsigliere regionale della tua formigoniana regione”. Presi e andai, da osservatore esterno ma pieno di curiosità. Devo ammetterlo: ho sentito tante atmosfere politiche ma, come quella, me ne ricordo giusto un paio e sempre lontane dai partiti. C’era una voglia di protagonismo nuovo ma anche sano. C’erano due generazioni, forse tre, che chiedevano ascolto, spazio. Portavano con sè un nuovo modo di comunicare ma non solo: c’erano contenuti, tanti, e quasi tutti tranquillamente collocabili nel famoso pantheon della sinistra, quella grande e plurale, ben oltre il piccolo e spesso autoreferenziale steccato di un claudicante PD. Anche nelle modalità di confronto l’incontro aveva del rivoluzionario: niente toni forti, niente contrapposizioni troppo ricercate con chi c’ era ai tempi alla guida del partito (nonostante la stampa di allora provasse ad enfatizzare spaccature con chi nelle stesse ore era riunito a Roma con tutti i segretari di tutti dei circoli d’ Italia) ma gli interventi erano portatori tutti di una rivoluzione gentile, come se la sicurezza delle idee che si avevano-di una nuova partecipazione inclusiva con chi stava fuori dal partito-fossero una cosa naturale; come se già si sapesse che quella sintesi di idee comunicative, proposte sostanziali e toni rappresentasse una cosa decisiva, vincente. Sicuri a tal punto che sembrava inutile-e superfluo-affondare il colpo su chi aveva ai tempi la responsabilità della rotta del partito. Ovviamente nel merito non condividevo tutti gli interventi e anche nel campo universitario-quello a me più affine- c’erano parecchie storpiature: quello che stava nascendo però, sembrava valere il prezzo del biglietto, sembrava che andasse verso un patto con gli elettori, e che quegli elettori fossero quelli del popolo delle primarie, direi pure anche un po’ oltre. “Bello!”, pensai. Una rivoluzione per chi fino a quel momento dall’alto si rivolgeva solo a correnti di partito, solo a gente che vedeva nel partito un fine e non ‘solo’ un mezzo di cambiamento, strozzando con la burocrazia old style buone idee e vitale partecipazione, oltre che qualche milione di voti.
Tutto quello che quattro anni fa era contenuto e partecipazione ora è diventato solo immagine e culto da setta. Tutto quello che era confronto nel rispetto delle idee differenti verso un’auspicata sintesi di governo ora è etichettata con sdegno come lesa maestà. Tutto quello che era il progetto di un nuovo rispettoso patto sociale ora si è trasformato in provocazione e sbeffeggio. Tutto quello che era critica costruttiva alla classe dirigente del centrosinistra degli ultimi 20 anni è diventato sostituzione di un gruppo di potere con un altro gruppo di potere. Si è cambiato tutto, per non cambiare nulla e su alcune cose si sono ripercorsi gli stessi errori del centrosinistra degli ultimi 20 anni, ricorrendo Berlusconi nei modi e nei contenuti. Questo nonostante 4 anni fa si dicesse chiaramente che quello di sicuro fosse stato il più grande errore di tutti, fosse stato l’inizio della fine. In 4 anni, per dire, si è passati da criticare la bicamerale di D’Alema a stipulare il patto del nazzareno, da urlare nelle primarie “basta larghe intese, giuro!” a farle diventare consuetudine, da cercare una coesione sociale respingendo l’idea di Berlusconi nell’ umiliare i lavoratori di una parte sindacale ad indicare tutti i sindacati come principale problema del Paese, da voler rilanciare un partito aperto a trasformare i luoghi democratici in deserti argomentativi, utili solo per usare la forza dei numeri senza un leale confronto sulla forza delle idee.
Di quella prima Leopolda dopo quattro anni è rimasto solo il luogo, il nuovo modo (vuoto però) di comunicare e le camicie bianche: stop. Tutto quello di buono c’era lì quattro anni fa è tornato fuori, nel Paese. La mia generazione è tornata isolata a ricorrere i contenuti altrove, depressa nel dover ancora rimettersi alla ricerca di sponde politiche, con una rabbia in aumento grazie alle non risposte della politica alle domande della propria quotidianità.
Perché si sta andando “diritti” e si cambia verso si finisce “storti”: e agli “storti” la una politica che ha l’ambizione di rappresentare il cambiamento ben oltre gli steccati di partiti claudicanti, ha sempre preferito i diritti. E fidatevi di chi c’era: se quello striscione posto sopra la prima Leopolda esistesse ancora, sabato sarebbe stato in piazza San Giovanni, in ottima compagnia. Perché più che rappresentazione di un passato io in piazza sabato ho visto una moltitudine eterogenea espressione di un presente determinato e pronto a giocarsi le proprie carte per cambiar e in meglio il futuro: quello di tutti. Altroché gettone per iPhone.