Parlando di welfare a “Servizio pubblico”

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Era quasi commovente la passione con cui Pierluigi Bersani, nello studio di Servizio Pubblico, parlava di welfare. “Il vero meccanismo che può realizzare su questa terra un po’ di eguaglianza è il welfare sui bisogni fondamentali: sanità, istruzione e sicurezza”. Veniva quasi – quasi – da dimenticare tutte le scellerate scelte del suo PD, dal sostegno al governo Monti, al “La Fornero nel mio governo? Perché no?”, fino al “Niente patrimoniale, non sono un giacobino”. Ed era altrettanto entusiasmante ascoltare le proposte di Thomas Piketty per una più equa ridistribuzione della ricchezza: tassare di più il capitale e meno il lavoro, introdurre una seria imposta sulla successione, battersi per una patrimoniale europea e – perché no? – mondiale.

Eppure, pensavo mentre guardavo la trasmissione, nelle parole di entrambi si avverte una contraddizione sostanziale: nessuno dei due riconosce che le soluzioni da loro prospettate restano nient’altro che dei palliativi per rendere più efficiente un sistema di sviluppo che si regge su dei paradigmi che non prevedono affatto la possibilità di realizzare concretamente eguaglianza ed equità, se non in forme posticce. L’idea di welfare propagandata da Bersani – idea nobile, indubbiamente – è l’idea classica per cui bisogna spendere molti soldi per risolvere gli squilibri causati da quello stesso sistema che noi continuiamo a seguire ciecamente, senza che il sospetto che il vero problema stia proprio in quel sistema ci sfiori neppure. Prendiamo proprio i tre “bisogni fondamentali” enunciati da Bersani.

La salute è qualcosa che non può essere favorita da un modello di sviluppo che si fonda – e che altrimenti, semplicemente, non potrebbe sopravvivere – sulla combustione di sostanze nocive, sull’utilizzo intensivo di pesticidi, sul traffico sempre più intenso e sempre più veloce. Facciamo di tutto per rilanciare “la crescita”, e poi siamo costretti a curarci dai danni causati da quella crescita. Il caso ha voluto che proprio Bersani, da ministro dello sviluppo economico (2007), si trovò a scontrarsi con l’ordine dei medici dell’Emilia-Romagna che avevano lanciato un allarme contro la costruzione di nuovi inceneritori. Salute e sviluppo, in quel caso, si trovarono plasticamente contrapposti. E a Taranto i due elementi dimostrano in maniera ancor più emblematica la loro irriducibile inconciliabilità: per “dar da vivere” a migliaia di Tarantini c’è bisogno che l’Ilva resti aperta, ma perché l’Ilva resti aperta c’è bisogno – un bisogno calcolato, tutto sommato – che migliaia di Tarantini si ammalino e muoiano.

Sull’istruzione il discorso non cambia poi molto. Spendiamo una cifra esorbitante per finanziare (male) le scuole, nell’idea che la scolarizzazione serva a garantire maggiore equità e solidarietà sociale. Ma nelle scuole impartiamo agli studenti nozioni che sono in perfetta sintonia con i dogmi del nostro modello di sviluppo (competitività, individualità, selezione), e che dunque rendono impossibile la realizzazione dell’equità e della solidarietà sociale.

E la sicurezza? Immediatamente si pensa a quella garantita dalle forze dell’ordine. Ma sicurezza vuol dire anche certezza di poter vivere in luoghi che non siano soggetti a frane, alluvioni e altri tipi di catastrofi – tipo, che so?, un’abbondante pioggia nel mese di ottobre – come quelle che puntualmente sconvolgono il nostro Paese. Ma se il sistema attuale si regge proprio sulla cementificazione e sul consumo di suolo, oltreché sulle opportunità di affari offerte dalle emergenze e dalle ricostruzioni  (ricordate le risate la notte del terremoto dell’Aquila?), è davvero possibile mettere in sicurezza il nostro territorio? D’altra parte, anche sulla sicurezza classicamente intesa, va detto che gran parte di questo sistema di sviluppo si regge sull’illegalità, sulla corruzione, sulla criminalità organizzata. Quando si ricicla denaro sporco, quando si fanno transazioni ad opera di broker della ‘ndrangheta, quando si costringe una ragazza a prostituirsi, quando si spaccia erba o cocaina, l’economia sta girando. Ed il fatto che ormai anche questo tipo di attività vengano conteggiate nel calcolo del PIL, ci dimostra come questo modello di sviluppo non abbia più pudori a proclamare la propria costitutiva immoralità.

Ora, la prima cosa che si potrebbe pensare è che, piuttosto che darsi al catastrofismo come faccio io, ci si dovrebbe rimboccare le maniche per correggere le storture di questo sistema, che tutto sommato ci ha garantito anche un certo benessere. Ma il sospetto, sempre più grande, è che se da decenni continuiamo ad evidenziare “ciò che andrebbe cambiato”, ma poi non riusciamo a cambiarlo, è perché le iniziative che bisognerebbe prendere per il bene della maggioranza contrastano a priori con le regole di questo sistema di sviluppo ultraliberista e capitalista, il quale dunque, per la sua stessa sopravvivenza, non è disposto a fare concessioni che non siano del tutto marginali.


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