Cupo, arrabbiato, solo, visibilmente infastidito, costretto a subire il fuoco di fila di una minoranza interna che, stanca di subire accuse e attacchi a ogni piè sospinto, ha approfittato della Direzione di ieri per rispondere a tono e fare presente al segretario-premier che così proprio non si può andare avanti, che la linea che sta seguendo sul tema del lavoro e dei diritti è sbagliata e insostenibile e che la discussione all’interno del partito non può essere piegata ai desiderata di Berlusconi, Alfano e Verdini. Bastava osservarlo in viso per capire che ieri Matteo Renzi era alle corde, come era alle corde domenica da Fazio, quando si è lasciato andare ad una serie di dichiarazioni arroganti e fuori luogo che non hanno fatto altro che inasprire ulteriormente un clima già tesissimo, nel quale si perdono non solo le ragioni del dialogo ma anche i princìpi e i valori stessi della politica.
Perché se c’è un aspetto del renzismo che ormai risulta insopportabile a chiunque non abbia un minimo di convenienza personale nel dargli sempre ragione, qualunque cosa dica o faccia, è proprio questo suo atteggiamento: il “mourinhismo” applicato alla politica, con la differenza sostanziale che il noto allenatore portoghese, a sua volta non un campione di simpatia e buone maniere, quanto meno utilizzava la tecnica dell’uomo solo al comando che combatte contro tutto e tutti, a cominciare dall’establishment, per compattare la propria squadra, isolarla da polemiche e tensioni e ottenere risultati oggettivamente importanti. Il segretario-premier del PD, invece, applica il “mourinhismo” al contrario: fa di tutto per esacerbare gli animi, innalzare i toni del confronto e giungere allo scontro interno, col risultato che il PD somiglia sempre di più ad un campo d’Agramante mentre la destra, sia pur divisa, frazionata, incapace di giungere a una sintesi ed esprimere una classe dirigente all’altezza, nell’ultimo mese non solo si è ricompattata ma si è addirittura detta disponibile a sostenere convintamente il governo, vanificando il piccolo capolavoro di Letta che era riuscito, un anno fa, a spedire Berlusconi all’opposizione, rendendolo di fatto marginale.
Tuttavia, a tal proposito, ci sono due considerazioni da fare. La prima riguarda il mitico, e tuttora oscuro, Patto del Nazareno. Renzi, infatti, sa benissimo che è riuscito ad approdare a Palazzo Chigi solo dopo aver stipulato quell’accordo che, sostengono i maligni, si baserebbe su uno scambio fra l’“agibilità politica” di Berlusconi e il “soccorso azzurro” ogni volta che Renzi dovesse essere in difficoltà all’interno del suo partito. E questo è uno di quei momenti, dato che non è necessario essere un indovino per intuire che, se il premier dovesse ostinarsi a non accettare alcuna mediazione sul Jobs Act e lo smantellamento, di fatto, dell’articolo 18, il voto contrario della minoranza in Direzione potrebbe tramutarsi in un dolorosissimo voto contrario in Aula, dove però i gruppi parlamentari sono stati scelti da Bersani e, dunque, lo strappo sarebbe difficilmente ricomponibile e potrebbe anche condurre a una crisi di governo e ad elezioni anticipate in primavera.
La seconda riguarda un aspetto, quello generazionale, che costituisce la forza ma, al tempo stesso, il tallone d’Achille del nostro eroe. Scrive, difatti, Corradino Mineo in uno dei suoi “Caffè”: “In fondo Renzi, e i quarantenni che lo attorniano, sono anch’essi vittime. Segnati dal vuoto morale e ideale di uno dei peggiori periodi della nostra storia. Quello del neo-liberismo trionfante, quando i ricchi diventavano ricchissimi e i poveri dovevano vergognarsi. Quello del “sogno di Silvio”, ognuno imprenditore di se stesso, e della subalternità corriva della sinistra. Poche regole, tanta evasione ed elusione, e il denaro, lo spreco, la copertina di “Chi”, una donna bella e di plastica al fianco, è il discrimine tra vincente e perdente. Non hanno orizzonti se non rivendicare l’eredità, questi della generazione Telemaco, né – temo – passioni e slanci ideali”. E aggiunge, in un crescendo di asprezza espositiva: “Sanno come si mette insieme un comitato elettorale, o sei liste per imporre un candidato sindaco al primo turno, sanno degli errori dei vecchi che vogliono asfaltare.
Ma cosa sanno della sinistra, delle lotte dure per difendere un principio, dell’uguaglianza a protezione dei più deboli, o delle sofferenze per spuntare un diritto in fabbrica, per non morire di lavoro o non distogliere lo sguardo quando un compagno muore?”. Già, cosa ne sanno? Nulla purtroppo, perché la generazione di Renzi, volente o nolente, ha bevuto al biberon di Reagan e della Thatcher, è cresciuta davanti alle TV di Berlusconi ed è andata all’università dopo la “discesa in campo” dell’ex Cavaliere nel ’94, tanto che, sia pur involontariamente, si esprime esattamente come lui, si vanta di essere post-ideologica, rivendica il proprio pragmatismo cinico e non nasconde minimamente un certo fastidio verso tutto ciò che è discussione, approfondimento culturale, dibattito e, ovviamente, convegno, congresso, seminario. Tutto deve essere veloce, rapido, scattante, tutto deve avvenire nell’immediato e anche il futuro, di cui Renzi ha parlato persino all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non è inteso come un qualcosa da costruire insieme ma, al massimo, come una costola del presente che su di esso si proietta, portando con sé i suoi equilibri immutabili.
E anche gli esempi proposti da questa nuova classe dirigente inducono a riflettere: si parla di telefonini, evoluzioni tecnologiche, aziende che si scontrano nell’ambito di una competizione globale feroce e senza esclusione di colpi ma non si parla mai degli esseri umani, della persona che lavora, dei suoi diritti, delle sue conquiste né, tanto meno, della sua dignità e dello sviluppo della sua personalità nel contesto della società. Perché la società, come insegnava la “Lady di ferro”, “non esiste”: esistono solo i singoli.
Peccato che un Paese sull’orlo del precipizio non si governi così, che la mentalità avida e consumista propria del liberismo imperante da trent’anni sia la negazione stessa non solo della sinistra ma della persona, in quanto emblema di una forma sottile ma drammatica di schiavitù che persegue l’obiettivo, sempre più evidente, di trasformare gli uomini in oggetti, svuotando dall’interno le magnifiche costituzioni redatte nell’immediato dopoguerra. Da qui l’assalto dei santuari della finanza mondiale all’articolo 18, da qui la distruzione sistematica dei partiti e delle istituzioni, da qui la celebrazione del rito internazionale delle larghe intese, da qui l’annientamento di ogni forma di ideologia che non sia quella del successo e del denaro, da qui le guerre generazionali, scatenate ad arte per infrangere il patto sociale su cui si basa la nostra convivenza civile, da qui la barbarie dei diritti negati e calpestati, da qui, infine, un uomo troppo giovane e troppo smisuratamente ambizioso per rendersi conto di star sbagliando tutto e di star favorendo il trionfo definitivo di quei “poteri forti” che pure dice di voler combattere, nel crepuscolo solitario dell’avventura umana e politica di un personaggio che ha preteso troppo da se stesso.