“Molte grazie, sono davvero felice di essere qui alla casa delle donne italiane. Per me, che sono un’attivista femminista, è un onore”. È con queste parole che ieri la giornalista e scrittrice messicana Lydia Cacho, ha introdotto il suo lavoro che dà testimonianza a chi non ha voce in capitolo. A Roma, alla Casa internazionale delle donne di via della Lungara, Lydia Cacho è arrivata dopo il Festival di Internazionale a Ferrara, tappe italiane per presentare “I demoni dell’Eden”, il libro scritto nel 2005 e che finalmente esce in Italia grazie alla Fandango che, oltre a questo testo, ha già tradotto e pubblicato “Schiave del potere” e “Memorie di un’infamia”. Libri che raccontano un pezzo di vita della giornalista che ha indagato sul traffico di migliaia di bambine e ragazze in Messico e nel mondo, e che per questa sua “attività” ha rischiato di essere uccisa.
“Il mio femminismo lo devo a mia madre – spiega Cacho – una psicologa che lavorava con le donne e dalla quale ho ereditato l’idea che il femminismo è una questione di diritti umani e di esercizio del potere degli uomini”. Un’impronta che fa di lei non una brava giornalista o una scrittrice di talento, ma un’attivista che lotta in prima persona per i diritti umani, e che ha la capacità di fare analisi chiare e pertinenti del reale senza trascurare mai le condizioni concrete e di vita delle persone divise, per opportunità e privilegi, prima di tutto in base al genere.
“In Messico c’è molta violenza psicologica, fisica e sessuale sulle donne – dice Lydia Cacho – fino al femmicidio, ed è molto preoccupante. Ma quello che è più grave è l’impunità dei responsabili che concorre alla normalizzazione di questa violenza. Le donne parlano di violenza domestica ma anche di istituzioni che sostengono questa impunità minimizzando i reati. Crescere con una donna esemplare come mia madre – continua – mi ha dotato di una prospettiva diversa del mondo anche nel mio mestiere di giornalista, per cui quando ho iniziato a lavorare ho capito che in una redazione avere una prospettiva di genere su economia, politica, attualità, su ogni tema, poteva sembrare una stranezza più che una risorsa”. Ma è importante perché “un giornalismo differente”, come lo chiama Cacho, “che si relaziona con la realtà attraverso un’analisi oggettiva ma con una prospettiva diversa, è prima di tutto più democratico, e non sulla base di un ideale teorico o ideologico ma per un diritto concreto”. Prendiamo ad esempio la prostituzione: “Qui la differenza non è se è legale o no – spiega Cacho – ma quanti diritti hai e quanto è davvero libera la tua scelta. Perché c’è una certa differenza tra una prostituta che lavora in Olanda o in Germania, dove la prostituzione è legale, che deve pagare tasse, vitto e alloggio ed è costretta ad avere almeno 3 clienti al giorno se vuole sopravvivere, e una sex worker di lusso che in una serata guadagna più di uno stipendio intero. Eppure la domanda che bisogna porsi è un’altra: cosa sceglierebbe questa donna avendo veramente a disposizione una reale libertà di scelta in un contesto di pari opportunità e di diritti concreti garantiti?”.
Lydia Cacho è netta, chiara e non perde una battuta. Mentre parlo del suo libro e di quanti punti di contatto ci siano tra quello che lei mette a fuoco nelle sue pagine e quello che succede in Italia sulla violazione dei diritti di donne e bambine, lei prende appunti. Lo fa anche quando a parlare è Loretta Bondì, della cooperativa BeeFree – che gestisce l’unico sportello h24 per vittime di violenza presso l’Ospedale San Camillo di Roma – e Barbara Spinelli, avvocata dei Giuristi democratici esperta di femminicidio. E questo perché i “Demoni dell’Eden” non è solo la storia di un traffico di minori in Messico, ma è uno specchio vivo sulla violenza che, basato su storie vere, crea stimoli e riflessioni su fenomeni e situazioni anche geograficamente lontani tra loro. Partendo dalla denuncia di una ragazza coraggiosa, Emma, che decide di raccontare dell’uomo che da piccola l’ha violentata e avviata al traffico sessuale, Lydia Cacho non solo scoperchia la pentola piena di soldi e corruzione dei pedofili messicani di alto bordo con a capo il ricco albergatore Jean Succar Kuri, ma mette in luce la connivenza e le responsabilità di istituzioni e mezzi d’informazione, facendo emergere la cultura che è alla base di questa violazione dei diritti e che fa parte del senso comune, anche di chi non si sente responsabile diretto dei fatti. Tra questi c’è la procura a cui si affida Emma che invece di proteggere le vittime e il loro anonimato rende pubblica la notizia divulgandola ai media con grave esposizione e rivittimizzazione delle minori e delle loro famiglie, e anche l’informazione che specula sui fatti e dà in pasto al suo pubblico particolari irrilevanti ma morbosi, arrivando anche a ipotizzare un concorso delle bambine nella provocazione degli offender o che loro stesse si siano offerte liberamente a uomini 50 anni più vecchi in cambio di denaro. Responsabilità enormi sulla formazione dell’opinione pubblica che normalizza così la violenza, arrivando a mettere in dubbio la buona fede delle denuncianti e a percepire l’offender o come un uomo debole o uno psicopatico, distorcendo completamente la realtà: quella di uomini normali che scelgono in piena capacità di intendere e di volere di esercitare il proprio potere su donne, ragazze, bambine, esseri umani che pur nella più atroce sofferenza scelgono di non denunciare per non vivere l’incubo di sentirsi loro stessi colpevoli di quello che hanno vissuto. “È importante che chi si occupa di questi temi sia preparato, compresi i giornalisti che altrimenti fanno danni”, ribadisce Lydia durante la conversazione. Una cultura basata sullo stereotipo che la donna “varrebbe meno” di un uomo sempre e comunque, e che non appartiene solo al Messico ma a tutto il Pianeta: compresa l’Italia, dove il 80% delle violenze sulle donne avvengono in famiglia e dove la quasi totalità dei casi di violenza sessuale sui minori è agita da membri maschi del nucleo familiare e al 90% dai padri.
Ma lo stereotipo che colpevolizza le donne della violenza in famiglia, nel caso dei minori le madri, è troppo forte: “Riguardo il fatto che siano madri a vendere i figli o le figlie per avviarli alla prostituzione per via della povertà – dice Cacho rispondendo a una domanda del pubblico – dico che succede certamente ma non è la maggioranza dei casi. La violenza su bambini e bambine è qualcosa di più complesso, e quello della vendita per troppa povertà è uno luogo comune spacciato per la maggioranza dei casi. Ci sono moltissimi minori trafficati senza che le famiglie sappiano nulla e il mito della madre responsabile della violenza subita dai figli è un altro stereotipo che fa ricadere la colpa sulla donna di turno perché più facile in una cultura maschilista. Ci sono ragazzine indigene, per esempio, che vengono prese a lavorare nelle case dei ricchi per lavori domestici con il consenso dei genitori i quali non sanno che le figlie saranno sottoposte a violenze e torture, e quindi ricattate”.
Mentre sulla sindrome di alienazione parentale (Pas, ndr) che accusa la madre di manipolazione dei figli che raccontano violenze subite dal padre, e quindi che accusano falsamente l’uomo di famiglia, Lydia Cacho si chiede semplicemente “quale fondamento può avere una teoria fondata da un personaggio psicologicamente instabile e violento in casa?”. “Questa teoria – continua – è arrivata anche in Messico, e mi è capitato personalmente di imbattermi in un sostenitore della Pas e siccome sono una reporter sono andata a indagare. Ebbene, quest’uomo aveva tre porte tutte sbarrate prima di entrare in casa sua e dietro le mura teneva una giovanissima convivente incatenata. L’idea che mi sono fatta è che quando un uomo, o anche una donna perché ce ne sono molte, sostengono la Pas, hanno sicuramente a che fare con la violenza, cioè hanno un contesto di violenza nella loro vita, non ho dubbi”.
“E gli uomini?”chiede uno degli auditori presenti: “Per gli uomini il percorso deve essere profondo, non è facile abbattere gli stereotipi neanche per loro, ma sono importanti per il cambiamento culturale e devono essere in grado di prendersi questa responsabilità apertamente e socialmente, a partire dai comportamenti dei singoli e nella quotidianità. Ci sono gruppi di uomini che magari partono bene ma poi s’inceppano, perché quello che vale per gli altri maschi non vale per i componenti del gruppo. E allora a cosa serve? Non si può pensare di cavarsela così, c’è bisogno di una riflessione e un’autocoscienza di tutti gli uomini, non esistono buoni e cattivi”.
Fonte: http://bettirossa.com/2014/10/