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L’articolo 18 e i licenziati anonimi

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Se non ci si pensasse, non verrebbe da pensarci. Ma se ci si pensa, qualcosa comincia a preoccupare. Da qualche tempo pare che Matteo Renzi, dopo aver promesso e ottenuto “più primo pilu per tutti”, abbia scoperto che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è diventato uno strumento obsoleto, un ferro vecchio da rottamare.  “Il posto fisso non c’è più!” E giù grandi applausi alla Leopolda. Meno enfaticamente e più sobriamente alcuni suoi seguaci dipingono l’articolo 18 come il tappo in uscita che impedisce l’entrata ai nuovi lavoratori sicché, aggiungono, eliminata la strettoia finale, le nuove assunzioni dilagheranno e il nodo dell’occupazione sarà sciolto una volta per tutte. Sarebbe bello se fosse vero, ma non lo è.

I padri dello Statuto dei lavoratori crearono una distinzione nell’applicazione dell’articolo 18: nelle imprese sotto i 15 lavoratori subordinati, la garanzia della stabilità del posto di lavoro non ricorre; al di sopra si. Non è una discriminazione astrusa, cervellotica e casuale.

Il numero di quindici dipendenti al di sotto dei quali l’articolo 18 non si applica rappresenta, infatti, la massima espansione dell’impresa di tipo “familiare” in cui l’imprenditore è presente sul posto di lavoro, ben visibile ai lavoratori e lui stesso quasi sempre lavoratore tra i lavoratori. In un ambito simile, più spesso si riscontra lo spirito di corpo nell’azienda, più di frequente si condividono i successi e i rovesci della ditta, più intimo è il legame tra datore e prestatore di lavoro, stretti entrambi in un rapporto dove, se la contiguità potrebbe agevolare prevaricazioni del primo, la bravura e l’esperienza rafforzano il potere contrattuale del secondo, generando un equilibrio virtuoso che sostiene l’impresa sul mercato.
Altrettanto non avviene nelle aziende con più di quindici dipendenti, in cui il rapporto tra datore di lavoro e prestatore diventa più rarefatto ed è mediato da interposizioni di capimastri e organigrammi verticali che spersonalizzano il vincolo contrattuale trasformando l’imprenditore in persona giuridica astratta e il lavoratore in numero di matricola.

E’ in queste realtà che il sopruso cala dall’alto improvviso e spregiudicato, arrogante e ingiusto, prepotente e violento, impersonalmente discriminatorio. Togli l’articolo 18 e l’angheria diventerà ad personam, irridente e strafottente sul singolo.
Perché la vessazione contro i numeri di matricola è come premere quel bottone cui segue la morte di un cinese, tanto lontano da non essere neppure percepito come persona: un numero in mezzo a un miliardo e trecentomila numeri; tutti uguali e, perciò, indistinguibili, confondibili e fungibili. Pressoché inesistenti.

Questa spersonalizzazione, terreno fertile delle soperchierie nel mondo del lavoro, ha sin qui sempre trovato un argine dell’articolo 18 della Legge 300/1970. La reazione giudiziaria invocando la garanzia della stabilità, valeva a trasformare il numero in individuo, la matricola in presenza fisica, il quisque de populo in cives ed elevava il lavoratore alla dignità della persona che si contrappone, da pari a pari, alla persona dell’imprenditore, non più multinazionale, società per azioni o a responsabilità limitata evanescente, ma parte processuale convenuta al cospetto del giudice, al garante dell’applicazione della legge uguale per tutti e della Costituzione dell’Italia fondata sul lavoro.

Forse era proprio questo il grande fastidio che dava l’articolo 18, capace di ridurre il capitalismo alla legge, di sottoporre la finanza al diritto, di costringere l’arbitrio alla ragione.
Dicono che l’articolo 18 c’era in Italia ma non c’era altrove. E allora, invece di abolirlo, era meglio esportarlo.
Ma la strada sembra definitivamente tracciata e rimpiangere l’articolo 18 è orami da vecchi rottamandi.
Purtroppo non potremo vedere gli effetti della sua abolizione. Chi li subirà non avrà più voce per denunciarli pena la perdita indiscriminata del posto di lavoro.
Qualcuno dovrebbe cominciare ad aprire un sito per raccogliere le esperienze dei licenziati anonimi.


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