C’è uno spettro che si aggira fra gli autori, registi e sceneggiatori che ogni giorno sfornano documentari per contenitori anche di prime time della Rai: la Siae ed il riconoscimento del loro diritto d’autore. Una questione annosa che si trascina da anni e che vede gli autori alla mercé della nebulosa burocratica delle televisione di Stato, con domande inevase che si trascinano per dozzine di mesi rimpallate nel circolo kafkiano di uffici e redazioni di programmi.
La questione di per sé sarebbe semplice: ad ogni documentario – e non servizio giornalistico o redazionale – corrispondono registi, sceneggiatori, musicisti. A questi, per legge e vista la loro iscrizione alla Siae, dovrebbe essere corrisposta una quota di diritto d’autore per l’opera mandata in onda a seconda del canale che la trasmette e la fascia oraria di diffusione. Solitamente, per quello stesso documentario è fornita anche una lista di musiche, per le quali il musicista che le ha composte viene remunerato secondo gli stessi criteri dell’autore e sulla base dell’udibilità delle stesse durante il programma. Tutto semplice si dirà: come i cinema, i teatri redigono i borderaux dopo ogni spettacolo, così dovrebbero fare le televisioni, tanto più l’emittente pubblica. La realtà è spesso diversa.
Per renderla tangibile ecco un’esperienza personale. Per alcuni anni abbiamo realizzato documentari – così li definisce il contratto firmato tra la nostra società di produzione e la Rai – per un programma di prima serata. Per anni sono andati, e continuano ad andare in onda in forma totale o parziale. Ovviamente senza che vengano mai citati gli autori degli stessi, né durante la messa in onda, né nei titoli di coda del programma. Ma questa è un’altra storia. Ormai due anni fa decidiamo di registrare le opere in Siae compilando i moduli relativi al regista ed agli autori. Alcune opere sono andate in onda addirittura nel 2008. “Per ogni documentario abbiamo redatto la lista delle musiche, sarà facile fare il riscontro per la messa in onda”, ci diciamo. Ma non è così.
Comincia il calvario. In primo luogo la Rai non provvede in automatico a dichiarare le opere che manda in onda, ma deve essere la Siae a richiederle la relativa dichiarazione. Ma alle lettere ed ai solleciti verbali e scritti inviati alla Rai dalla Siae non vi è mai stata alcuna risposta. “Tempi lunghi”, ci dicono dalla società che cura la raccolta dei diritti d’autore, “alla Rai è sempre così”. Perché l’ufficio diritti della Tv di Stato invia le richieste alle redazioni che dovrebbero aver tenuto il registro di cosa hanno mandato in onda. Tutto tace ancora oggi: nessuna risposta è mai pervenuta, né di accettazione, né di diniego. Il nulla.
Parlandone con altri colleghi autori emerge un quadro più complesso: musicisti retribuiti al minimo e compensati con i proventi della messa in onda, autori che vedono i loro stipendi pagati in Siae, ma soprattutto una frase ricorrente: “Avete depositato le opere in Siae, non volete più lavorare con la Rai?”.
Sembra un paradosso che la televisione di Stato non voglia retribuire un diritto inalienabile. E’ quantomeno singolare che una delle principali industrie culturali italiane non riconosca l’impiego di opere dell’intelletto (altrui) e ci si chiede, a questo punto, che fine facciano quei soldi che – nel caso un programma sappia di dover mandare in onda dei documentari coperti da diritto d’autore visto che firma dei contratti di appalto o di acquisto per la loro diffusione – dovrebbero essere stati messi nel budget proprio per coprire queste spese preventivabili. E le domande potrebbero continuare. Ad oggi prendiamo atto che la Rai ha difficoltà a versare i diritti Siae agli autori di documentari inseriti nei loro programmi, in attesa di essere smentiti, ovviamente.