Io sto con la sposa non è solo o tanto un documentario, ma un atto politico di protesta. Il corteo nuziale diventa il pretesto per attraversare quelle frontiere che la fortezza Europa ha voluto blindare per evitare che i richiedenti asilo scelgano liberamente in quale paese andare a vivere. A partire da una trama piuttosto semplice ha inizio il viaggio reale di un gruppo di persone, italiani e rifugiati, sbarcati in Italia, a Lampedusa dopo uno di questi viaggi che passano come i viaggi della speranza ma dove la speranza, il più delle volte, è destinata a morire insieme a chi se la porta dentro.
Le cronache ormai lo raccontano e chi ha orecchie per sentire lo sa bene: l’Italia è solo un luogo di passaggio, un porto quasi sicuro da cui intraprendere il viaggio vero che porti infine alla salvezza, verso il nord Europa, verso i paesi scandinavi, dove le condizioni per un richiedente asilo sono ben diverse e dove è davvero possibile ricominciare a vivere.
Il problema è che anche questi viaggi, come quelli che portano a Lampedusa, sono in mano ai trafficanti, gente che si fa pagare cifre elevatissime per oltrepassare i confini e non sempre porta a termine la missione. Capita allora che profughi ignari vengano abbandonati nei posti più disparati e siano costretti a continuare il viaggio a piedi, quando non vengono fermati dalla polizia di frontiera, identificati e rimandati indietro dal paese da cui sono appena fuggiti e dove le impronte digitali giacciono come catene legate ai polsi.
Man mano che le scene vanno avanti, dopo la celebrazione del finto matrimonio, il corteo nuziale comincia a prendere forma con volti, storie, anima. Ognuna delle persone coinvolte ha un ricordo che ferisce ( “ mi buttavano cadaveri addosso pensando che fossi morto”, “ …se ci hanno salvati è solo perchè i siriani del centro di accoglienza di Lampedusa si sono messi a protestare e hanno chiesto di parlare con ONU e Croce rossa…”), amici o famigliari persi, durante la traversata o sotto le bombe, in Siria ( “sto ancora aspettando di prendere un caffè con lui”), ognuno una lacrima da versare, ma anche un forte attaccamento alla vita e alla possibilità di ricostruirsela in un’altra parte del mondo.
In questo il documentario, forte anche del finanziamento dal basso che ne ha consentito la realizzazione, forte degli incassi al botteghino, forte dell’immaginario che è riuscito a creare grazie all’irruzione delle 80 spose al Festival di Venezia è pienamente riuscito nell’intento di porre all’attenzione dell’opinione pubblica il dramma vissuto dai richiedenti asilo che sbarcano numerosi sulle nostre coste, ma anche a risollevare l’attenzione sul conflitto siriano ormai sparito dalle cronache nazionali, ridando un nome e un volto, una dignità a chi è fermamente convinto che “il cielo è di tutti”.
Un film di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry. Con Tasneem Fared, Abdallah Sallam, MC Manar Manar, Alaa Bjermi, Ahmed Abed.