La Repubblica – Conchita De Gregorio
LA DITTA, il Ragazzo. La luna di miele era per i fotografi, in verità una tregua armata. Estranei erano ed estranei sono rimasti. Al Partito (quello novecentesco, quello delle tessere che non ci sono più) il Ragazzo non è mai piaciuto: un’altra tradizione politica, tutta quella spregiudicatezza, occhiolino alle telecamere e nessuna gratitudine verso i padri. Alle Frattocchie lo avrebbero messo a rilegare atti del congresso, così si calma. Ma il Ragazzo le Frattocchie sa a malapena cosa siano, e poi quello era il Pci. A Renzi, d’altra parte, la Ditta è servita soprattutto come mezzo di trasporto: capolinea Palazzo Chigi. Come legittimazione, anche: vuoi mettere l’aura che ti dà essere alla guida del primo partito del centrosinistra europeo in confronto, mettiamo, a una lista civica. Difatti pazienza se non si iscrive più nessuno, “contano gli elettori”, ha ripetuto venerdì. Pazienza se nemmeno in Emilia vanno più a votare alle primarie, “nessuno ha interferito”, se la Ditta è in liquidazione perché “un partito senza iscritti non è più un partito”, parola di Bersani. Renzi: “Io parlo agli italiani, non ai dirigenti del Pd. Ogni volta che D’Alema apre bocca mi regala un punto”. Ecco, questo.
Dall’ultima direzione Pd è cambiato il mondo: ora è finalmente chiaro a tutti. Esistono due partiti dentro il Pd, anzi tre. Il partito di Renzi, la vecchia Ditta, la sinistra di Civati. Guardate i video su Youtube. Osservate come si muovono, ascoltate cosa dicono. La velocità, la quantità di parole per minuto. Lo schema di gioco: i vecchi in difesa, il Ragazzo all’attacco. I verbi al passato, i verbi al futuro. Bersani, D’Alema, i dirigenti venuti dal Pci hanno patito, irriso, combattuto Matteo Renzi – un boy scout scaltro e ambizioso, un democristiano 2.0 fissato con Twitter, ridevano – fino a che non ha vinto: le primarie prima, le europee dopo con un risultato da lasciare tutti muti. Il 40, e zitti. In mezzo la partita del Quirinale, che senza i 101 e rotti “traditori” avrebbe potuto davvero cambiare le sorti del Paese, ma non è accaduto e ancora resta da spiegare come, perché, per mano di chi. Ora preparano la fronda. D’Alema riunisce i suoi parlamentari a cena, Bersani parla con Pippo Civati il quale a sua volta parla con Vendola. Ieri erano insieme in manifestazione in piazza Santi Apostoli: Vendola, Civati, Landini. Un’altra sinistra possibile, ancora una. La scissione è il tema del momento. Subito? A dicembre? Non appena mancheranno i voti al Senato, magari per la legge di Stabilità?
Ora: a chi vive nel mondo reale è piuttosto chiaro che quel che accade dentro il Pd interessa ormai solo a chi lo abita. Agita curve sempre più esigue. Interessa pochissimo anche Renzi, infastidito dalle diatribe delle minoranze interne almeno quanto Berlusconi lo era dal dibattito parlamentare. Una zavorra: “Se decidono di uscire fanno il 5, e andiamo più veloce”, ha detto l’altro giorno a uno dei suoi tre uomini di fiducia – di tre persone sole si fida davvero. Fanno il 5, dice di Civati e del possibile “nuovo soggetto politico” che si è affacciato ieri dal palco di Sel. “E’ troppo presto, ora, per rompere”, dice rientrando verso casa Felice Casson, senatore civatiano e possibile candidato sindaco per Venezia. “Con l’articolo 18 in aula si andrà per le lunghe. Lo stesso governo non ha chiesto, in conferenza di capigruppo, di contingentare i tempi del dibattito: segno che il governo per primo non ha fretta”. Il governo non ha fretta di arrivare al voto finale. Civati ragiona sui tempi: “Mi chiedono di uscire dal Pd per strada, in treno, al bar mentre prendo un caffè”. Ma è presto, ripete. “Non prima di dicembre di sicuro, deve passare dicembre”.
Dicembre è il mese chiave. Perché se il riposizionamento dei Giovani turchi e le strategie di Area democratica (se Roberto Speranza in Direzione si astiene, se Andrea Orlando vota a favore e D’Attorre contro) sono ghiottonerie solo per i feticisti della materia è anche evidente che si tratta di segnali che annunciano una partita più grande. Fuori dal Pd c’è il campo esteso del centrosinistra, il destino del governo e delle istituzioni supreme, presidenza della Repubblica in testa. Civati guarda allo spazio politico di Sel, vampirizzata alle europee dalla lista Tsipras. Lavora intanto al fianco dei ‘movimentì storicamente diffidenti verso la Ditta, diffidenza ampiamente ricambiata, e cerca sponda nel sindacato pronto a scendere in piazza il 25 ottobre. Un’area che va da Landini a Rodotà, Zagrebelsky, Libertà e Giustizia, Sel, i verdi rimasti. “Più o meno un dieci per cento dell’elettorato”, stima Civati raddoppiando la valutazione di Renzi. Quanti siano nel Paese si vedrà al momento del voto: intanto è interessante sapere quanti sono al Senato, e se per caso la loro defezione al momento di votare le riforme possa portare, appunto, al voto anticipato e quel che ne consegue.
Ecco il nodo di dicembre. I sondaggi danno il Pd in lieve crescita rispetto al 40 e la fiducia in Renzi in ascesa. Al Presidente del Consiglio – che non è passato da un voto politico ma ha avuto una legittimazione per così dire postuma, con le europee – converrebbe andare a votare al più presto, lo sa e lo dice. Per liberarsi dalla zavorra del dissenso interno e ricalibrare le forze rispetto a Forza Italia e a Berlusconi, in declino – quest’ultimo – personale e di consensi. C’è tuttavia il vincolo del patto del Nazareno che prevede, tra l’altro, un accordo per l’elezione del prossimo Presidente da farsi con questo Parlamento. Giorgio Napolitano ha fin dalla rielezione immaginato di dimettersi per i suoi 90 anni, a giugno. Renzi vorrebbe “che fosse lui ad inaugurare l’Expo 2015″. Ma neppure il presidente del Consiglio sa con certezza se a maggio ci sarà questo o un altro Parlamento. Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme, renziano: “Ai dissidenti non conviene andare a votare, parecchi metterebbero a rischio la propria rielezione. E’ piuttosto triste, inoltre, assistere ad un’alleanza fra D’Alema e Civati in chiave anti-renziana. D’Alema e Bersani incarnano una sinistra conservatrice: operaista fuori tempo massimo, tutta schiacciata a garantire un mondo in estinzione, il loro mondo. Non li abbiamo mai visti in piazza a difendere le finte partite Iva dei giovani senza garanzie, né dei precari. Hanno governato, non hanno fatto quel che potevano e dovevano.
Civati, mi duole dirlo, finisce per ingrossare le fila di quella sinistra minoritaria e identitaria, quella che sta sempre e solo all’opposizione felice di occupare una riserva indiana in cui tutti sono puri e sono amici, si conoscono. La polemica lessicale dell’altro giorno in direzione – se gli imprenditori siano ‘padronì o ‘datori di lavorò – sembrava una riedizione dello scontro fra Occhetto e Berlusconi”. Padroni che sfruttano i lavoratori, diceva Fassina. Datori di lavoro che partecipano al destino dei loro dipendenti, insisteva al contrario Renato Soru. Pippo Civati: “Partirei da Soru, che ha avuto problemi col fisco e siede al Parlamento europeo mentre i lavoratori dell’Unità di cui era editore sono in cassa integrazione: fossi in lui parlerei d’altro, non di rapporti societari e aziendali. Quanto al rischio scissione: certo che esiste. Oggi è il lavoro, domani sarà la legge di stabilità: che cosa facciamo, continuiamo a votare contro, restiamo dentro in dissenso dalle scelte fondamentali? Non mi pare possibile”.
Sull’altro fronte, quello della Ditta, due sono i livelli di frattura con Renzi. Quello evidente della vecchia guardia, D’Alema e Bersani ostili. Poi quello generazionale e “ministeriale”: i giovani ex dalemiani, figli di quegli anziani padri, oggi al governo del paese e del partito – ministri, capigruppo, presidenti – che proiettano su Renzi la loro personale traiettoria politica. Orfini, Orlando, Speranza, Martina. Il Ragazzo e la sua capacità di vincere trascinano nell’orbita renziana i più giovani della Ditta.
Queste le divisioni cellulari interne al Pd. Più seria e più grave, tuttavia, è l’unica divisione di cui Renzi dovrebbe aver timore: il solco che si è creato fra il vertice del partito che dirige e la sua base, quel che ne resta nell’emorragia di iscritti. Esiste il mondo della direzione del Pd, esiste il mondo di Twitter e Facebook, poi esiste il mondo fuori. C’è un’Emilia in cui vanno a votare alle primarie solo i politici di professione, una Puglia che fa accordi con il centrodestra incomprensibili ai militanti. Una Toscana che ha lasciato Livorno ai Cinquestelle, c’è Venezia commissariata, il sindaco eletto dal Pd travolto dagli scandali. C’è un Pd che si sfalda, sul territorio, una disillusione che cresce nell’ironia feroce e nella rabbia. Renzi parla al Paese, non al partito. In questo senso l’unico che davvero, per ora, ha mostrato di potere e volere “uscire dal Pd” è stato lui.