Il fine settimana che cambierà la politica italiana

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C’è un aspetto che pochi hanno sottolineato e che, invece, a nostro giudizio, è il più importante di questo fine settimana, indubbiamente destinato a cambiare per sempre il volto della politica italiana. Il punto è che Renzi se l’aspettava una marea oceanica di persone a San Giovanni con la CGIL ma non si aspettava “quella” marea oceanica. Se il sindacato avesse portato in piazza prevalentemente i suoi iscritti, ossia i pensionati dello SPI CGIL, state pur certi che il piè veloce Matteo non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di irriderli dal palco della Leopolda, ottenendo il consueto successo mediatico e politico. Al contrario, li ha irrisi ma stavolta ha perso e malamente. Perché sabato, in piazza col sindacato, c’erano sì i pensionati della Cantone ma con indosso delle pettorine con su scritto: “Nonni per il lavoro” o, meglio ancora: “Largo ai giovani” e accanto non avevano altri coetanei ma i propri nipoti. Il che significa una sola cosa: che stavolta Renzi ha sbagliato, e malamente, l’analisi sociologica di ciò che si sta muovendo nel Paese.

La piazza della CGIL, infatti, è solo una delle tante tappe di un cammino che la nostra generazione ha iniziato già da qualche anno e che si è snodata lungo un tragitto politico ed ideale fatto di lotte nelle scuole e nelle piazze, contro la riforma Gelmini, per i referendum, contro il governo Berlusconi e lo strapotere delle banche e della finanza, contro la precarizzazione del mondo del lavoro e contro il pessimo governo Monti, fino alla manifestazione di sabato contro un esecutivo che, sotto i lustrini degli annunci e le promesse di mirabolanti riforme, cela altra disperazione, altro precariato, altra disoccupazione, una riduzione drastica degli ammortizzatori sociali e, soprattutto, un progressivo smantellamento del concetto stesso di diritti e tutele, a coronamento di un processo, avviato già da qualche anno, di svuotamento progressivo e dall’interno delle parole e dei princìpi costituzionali. Uno sfregio continuo, insomma, un attacco senza precedenti alla dignità del lavoro e alle fondamenta dell’Italia repubblicana, un assalto alla nostra storia che, semplicemente, viene cancellata, come se si trattasse di un tweet e non di un percorso secolare fatto di battaglie, scioperi, rivendicazioni e tanti, tantissimi morti per ottenere quei diritti e quelle garanzie che oggi si vorrebbero abolire o, comunque, indebolire pesantemente. Ma quella piazza colorata e rabbiosa, preoccupata ma al tempo stesso combattiva, ha deciso di dire basta; e sono stati, in particolare, i giovani a ricordare al Presidente del Consiglio che dovunque si siano battuti per un lavoro degno di questo nome, là hanno trovato un sindacalista, che in ogni scuola e università hanno trovato un rappresentante della Rete degli Studenti o dell’Unione degli Universitari pronti ad includerli e a coinvolgerli in assemblee e momenti d’incontro e di riflessione e che sono orgogliosi di accompagnare i propri nonni, magari tesserati dello SPI, per difendere le pensioni di chi ha lavorato una vita e oggi si vede accusato di essere un “ladro”, un “parassita”, un “nemico dei giovani”, quando spesso quei signori con i capelli bianchi sono i primi a sostenere, incitare e dare un aiuto concreto ai propri nipoti.

Ciò che non ha capito Renzi è che, mentre nell’abisso del berlusconismo televisivo, si è formata una generazione di uomini e donne soli, attratti dal mito liberista dell’egoismo individualista e della negazione stessa della società, nel baratro del berlusconismo politico è cresciuta una generazione che il 23 marzo del 2002 andava ancora alle elementari o alle medie ma che quel giorno ha compreso il valore imprescindibile della libertà di pensiero, d’espressione, di sciopero, che ha imparato a detestare l’ingiustizia e a battersi per trasformarla in un diritto, che ha imparato, giorno dopo giorno, ad amare la politica e a dedicarvisi attivamente, che oggi ha un sindacato di riferimento ma non ha più un partito perché la sinistra, in questi anni, ha pensato bene di dissolversi, prigioniera dei suddetti miti, delle sue divisioni, della sua incapacità di assecondare quei volti e quegli sguardi che non chiedono altro che una comunità solidale in cammino nella quale sentirsi partecipi e protagonisti.

Ciò che non ha capito Renzi è che lui avrà pure preso il 40,8 per cento alle Europee ma ha perso un’intera generazione, quella che sabato scorso ha contrapposto al mito futurista della Leopolda la solidità dei valori di un popolo orgoglioso delle proprie radici: l’antifascismo, le lotte operaie, i morti della Resistenza e quelli di Reggio Emilia nel luglio del 1960, il Sessantotto e le riforme progressiste degli anni Settanta; un percorso che non può essere riposto in un cassetto come se non fosse mai esistito. E ha perso perché non ha capito che la nostra generazione è la prima a non seguirlo nella sua incessante costruzione di un nemico da additare al pubblico ludibrio per nascondere gli insuccessi della sua azione di governo. Ha perso perché ai suoi spot preferiamo i nostri nonni partigiani che ci hanno preso per mano quando eravamo ancora adolescenti; ha perso perché San Giovanni non è solo la piazza della Camusso ma, prim’ancora, è la piazza di Berlinguer e di decine di manifestazioni scolpite nel ricordo di chi c’era e nelle speranze di chi si è fatto raccontare quei momenti; ha perso perché a San Giovanni un’intera generazione ha preso, finalmente, coscienza di essere una comunità e non un insieme di singoli; ha perso perché non ha capito che i ragazzi di quella piazza rossa sono gli stessi che hanno ripulito dal fango Vicenza e Genova, che hanno aiutato L’Aquila a risollevarsi dopo il terremoto, che sempre più spesso si dedicano al volontariato e all’aiuto dei più deboli; ha perso, in poche parole, perché è andato a destra mentre il futuro sta andando a sinistra, perché ha tentato di narrarci “le magnifiche sorti e progressive” della società post-ideologica e si è trovato davanti un muro di ventenni che, invece, ha bisogno di un’ideologia costituzionale, fondata sul lavoro e sulla libertà, sui diritti e sulla possibilità di essere pienamente e consapevolmente cittadini. Ha perso, Renzi, perché ha preteso troppo da se stesso, senza accorgersi che la nostra non è una generazione che si lascia addomesticare e plasmare da qualche slogan perché non ha più nulla da perdere, visto che tutte le conquiste sociali dell’ultimo mezzo secolo le sono state già strappate e oggi non le resta che ricostruire sulle macerie di un Paese distrutto, facendosi forza nella disillusione e nel disincanto collettivo, tentando di rianimare chi non ci crede più, di recuperare chi è rimasto indietro, di infondere coraggio a chi guarda ai giovani con speranza e si affida loro con l’auspicio che riescano nel miracolo di rendere questa Nazione un po’ meno disumana ed escludente per chi ha meno risorse e possibilità. E ha perso, infine, perché ha scelto la parola sbagliata: “opportunità”, quando oggi le opportunità sono poche per tutti e zero per la maggior parte delle persone, quando abbiamo un disperato bisogno di uguaglianza e solidarietà, quando chi resta fuori non ha alcuna possibilità di diventare un cittadino a tutti gli effetti ed è costretto a vivere sotto il ricatto umiliante di una condizione di sudditanza oggettiva.

Per questo, sbaglia profondamente anche chi pensa che la nostra sia una generazione apolitica: di sicuro, fatica a militare in questi partiti ma la piazza di sabato dimostra che, dovunque ci siano dei luoghi di discussione e di confronto aperto, partecipiamo eccome, che si tratti della CGIL, dell’A.N.P.I. o delle splendide iniziative di Libera, di Articolo 21 o delle altre mille associazioni sorte in questi anni intorno a specifici temi e capaci di fare rete, fino a trasformarsi in veri e propri soggetti politici.

Non ha capito nemmeno il nostro bisogno di politica, lui che di fatto continua a negarne l’importanza e a ridurre tutto a uno scherzo o a una battuta, ma di una cosa siamo sicuri che stia cominciando a rendersi conto. Se la nostra generazione avrà il coraggio di non fermarsi, di non lasciarsi irretire dalle ultime, furenti sparate di un uomo ormai a corto di argomenti, la politica italiana avrà, forse, l’ultima occasione di riscattarsi, senza rottamazioni e senza insultare né offendere nessuno ma, anzi, recuperando il valore della memoria e del patto fra generazioni diverse.

In quella piazza, sabato, migliaia e migliaia di giovani hanno preso coscienza di non essere più spettatori di una narrazione altrui ma di poter costituire il centro di un progetto che guarda davvero ai prossimi trent’anni. Adesso sta a noi farne buon uso.


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