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Il film di Martone ci restituisce un Leopardi, grande italiano da amare

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“Il giovane favoloso” è la narrazione di una lunga lotta tra i vincoli che vorrebbero costringere Leopardi alla resa e il suo indomito bisogno di superarli. La famiglia colta e bigotta gli crea il primo conflitto tra gli spazi del sapere che il ragazzo interiorizza con sorprendente capacità e la claustrofobia della sua vita sorvegliata e circoscritta da barriere.
Come la finestra, da cui guarda la giovane figlia di contadini. Il cielo, che lo stordisce di vastità. La siepe, metafora del conformismo, oltre la quale c’è la ricerca del senso delle cose.

La deformità del corpo – resa credibile e sofferta da uno strepitoso Elio Germano – diventa un potente elemento di frustrazione per la privazione di affetti femminili, che Leopardi patisce come effetto di una natura crudele e indifferente al destino degli uomini, contro la quale scaglia la sua rabbia senza mai arrendersi, ma maturando piuttosto il suo pessimismo antagonista.
Martone usa con abilità la camera mobile quando insegue l’inquietudine di Leopardi nelle sue fughe improvvise, nei sui cedimenti fisici, tormentandolo con i primi piani del volto,  le sue vene gonfie e le contrazioni facciali nei  momenti di disperazione, così umani che ti entrano nell’anima.
Ottima anche la fotografia, anche se con qualche eccesso di ambientazione nelle scene popolari della vecchia Napoli, dove il regista calca un po’ la mano sull’effetto “presepe”.
Finisce il film senza accorgersi che sono passate due ore e mezzo senza intervallo. Si esce con il grande rimorso di aver trattato Leopardi come un compito d’italiano da fare. E la voglia di ritrovarlo come un grande italiano da amare.

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