“L’articolo 18 è come il gettone nell’iPhone”, ha detto Renzi domenica, chiudendo la quinta edizione della Leopolda e rispondendo a quanti, il giorno prima, si erano trovati a Roma per manifestare con la Cgil e contro la riforma del lavoro che il Governo sta mettendo in campo. Ora, io non ho mai avuto, in virtù dei miei contratti di lavoro precario, le tutele previste dall’articolo 18, né ho mai posseduto un iPhone, e forse è per questo che ero in piazza sabato e non fra le mura di una vecchia stazione: perché non so se il gettone di quelle tutele può far funzionare quel telefono, e m’interessa scoprirlo. Quindi, anche a rischio di rompere il giocattolo, pardon, il device alla moda, cercherò di mettere un mio personale gettone nella discussione. Anzi, due.
Il primo riguarda proprio l’idea che il segretario del PD ha espresso e voluto far passare con forza a Firenze: “il posto fisso non esiste più”. Quindi, sottotitolo, “cari precari, fatevene una ragione”. Io credo, però, che una cosa così il leader di un partito, anche non di sinistra, non la può liquidare in una battuta, come se fosse un hashtag. Perché, all’idea di tempo indeterminato nel contratto di lavoro, sono legati i destini e le progettualità della vita delle persone reali, che sono più importanti degli applausi di qualche follower. Cioè, se a me spieghi di dover lasciare ogni speranza in un lavoro che duri di più del tempo necessario a capire come funziona, è chiaro che mi spingi a vivere in difesa.
In tal modo, non solo non avrò fiducia nel mio futuro, ma nemmeno me ne importerà poi tanto di quello del posto in cui lavoro: perché dare di più dello stretto necessario e metterci anche passione in un lavoro, se quello che succederà di questo e del luogo in cui avviene, fra qualche mese, non sarà più affar mio; il padrone fa finta di assumermi, io faccio finta di lavorare. E se crolla la produttività e la ditta chiude? E a me che interessa? In quella ci starò solo fino alla fine dell’anno. Chiaramente, questo ragionamento è spinto al parossismo, ma non è poi tanto lontano dalla realtà, se le statistiche spiegano che la precarietà incide negativamente anche sui livelli e sulla qualità della produzione nelle aziende. Come dire: alle volte si può fare più danno togliendo qualcosa, che non cercando di usarla difendendola.
Il secondo gettone, invece, è legato allo strumento scelto dal presidente del Consiglio quale immagine della modernità: l’iPhone, appunto. Va subito detto che questo è davvero il simbolo dei tempi odierni: della portabilità intesa come dimensione del vivere nomadico, della totale dipendenza dal sistema che lo ha prodotto per il suo funzionamento, quasi si trattasse del ciclo agricolo basato sulle sementi da Ogm, della prestazione potenziale fatta gesto e significato ultimo, estetico ed estetizzante, metro e valore di cose che quasi mai si traducono nell’utilizzabilità reale, o della insuperabile capacità di semplificazione, che, attraverso le complesse operazioni compiute da un’app senza essere percepite, rende facile ogni cosa, quasi a dire che semplice è pure la soluzione dei processi più complessi.
Ma è altresì il fenomeno migliore dei rapporti di forza in questa modernità, quelli che producono i loro effetti nelle fabbriche dove ci si suicida per l’insostenibilità dei ritmi, e che obbligano pure i lavoratori a firmare per sollevare l’azienda dalle responsabilità di quel gesto, perché sul lavoro è proibito togliersi la vita, ma non lo è morire, e l’espressione più riuscita di un marchio che, modernamente, propone alle sue lavoratrici il congelamento degli ovuli, perché sia chiaro e fermo il concetto che, per il lavoro nelle dinamiche più futuribili, alla vita si rinuncia e la si rimanda.
Ecco, anche in questo caso: siamo proprio sicuri che sia migliore questa modernità che fa a meno di quei vecchi gettoni?