Lapidata da parole pesanti come pietre: “Haram!”. “Impura!”. L’odissea umana e giudiziaria della cristiana Asia Bibi – cominciata cinque anni fa con quell’ingiusta accusa di blasfemia – non è ancora terminata. L’Alta Corte di Lahore lo scorso 16 ottobre ha confermato la sentenza del 2010: condannata a morte. Lavorava nei campi, fianco a fianco con altre contadine, quasi tutte musulmane. Al pozzo, aveva “osato” offrire un bicchiere d’acqua ad una vicina di fede islamica. Una donna aveva puntato il dito contro di lei: aveva reso “impura” l’acqua. E la rabbia si era accesa come una miccia, nel villaggio del Punjab pakistano dove viveva con i suoi cinque figli prima di essere inghiottita nella cella di una prigione. In “Asia Bibi, Malala e le altre” (Michela Coricelli, Ed. San Paolo) la sua storia viene raccontata insieme a quella di tante altre sue connazionali, eroine involontarie con un incredibile coraggio. La più nota (anche se non l’unica) è chiaramente Malala, la giovanissima che ha sfidato (e vinto) la violenza talebana, difendendo tenacemente l’educazione scolastica per tutti: anche per le bambine. Il Nobel della Pace a Malala è arrivato pochi giorni prima della conferma della sentenza contro Asia Bibi. Due facce della stessa dolorosa medaglia, che non riguarda solo il Pakistan.
Dopo la convalida della condanna per blasfemia, in difesa di Asia Bibi si è schierata anche Amnesty International , che l’ha definita una “grave ingiustizia”. Quello di Amnesty – rilanciato da Articolo 21 – non è il primo appello che viene lanciato: in Italia il quotidiano cattolico L’Avvenire ha raccolto decine di migliaia di firme per lei.