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Caso Farina: “Non si può essere insieme giornalisti e spie”. Intervista a Carlo Bonini

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L’Italia è uno dei pochissimi stati in cui esiste un Ordine che disciplina la professione di giornalista, ma è anche uno dei paesi occidentali inserito nei posti bassi delle classifiche delle più autorevoli istituzioni internazionali, per la scarsa tutela della libertà d’informazione e i danni derivanti dai conflitti d’interesse nel settore dei media. In questi giorni, è scoppiato il caso della riammissione di Renato Farina nell’Ordine dei giornalisti, nonostante una precedente radiazione dovuta ad un patteggiamento giudiziario per essere stato contemporaneamente giornalista e collaboratore dei servizi segreti, commistione di ruoli espressamente proibita dalle leggi istitutive dei Servizi e dell’Ordine professionale. Carlo Bonini, inviato di punta de La Repubblica, che ha realizzato le più importanti inchieste giudiziarie degli ultimi anni, anche insieme al compianto Giuseppe D’Avanzo, per contestare la riammissione di Farina nell’albo dei giornalisti ha deciso di dimettersi dal Consiglio nazionale dell’Ordine.

Per quale ragione hai preannunciato di uscire dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, se non viene radiato di nuovo Renato Farina, alias Betulla, che fu accusato e patteggiò una condanna in quanto legato ai servizi segreti e poi radiato dall’Ordine?
“Credo che in questa vicenda, non fosse altro che per le modalità con cui Farina è stato riammesso nell’albo con voto all’unanimità dell’Ordine regionale della Lombardia, per me pone una questione di scelta radicale.
Si tratta di decidere se si debba stare nello stesso Ordine, per giunta io in qualità di consigliere nazionale, e di fatto non renda questa compresenza un fatto da accettare naturalmente.
Ripeto, non stiamo parlando di un giornalista che viene riammesso dopo aver non solo scontato la sua condanna disciplinare, ma che è in qualche modo pubblicamente sanzionato per la dato gravità di ciò che ha fatto. Stiamo parlando di un signore che con il suo comportamento ha negato alla radice il senso, la funzione costituzionale della professione giornalistica. I giornalisti sono testimoni e non spie!
Non si può essere insieme spie e giornalisti! E non a caso la legge, sia quella istitutiva dell’Ordine, sia quella istitutiva dei servizi segreti lo vieta. Farina non solo lo è stato ma lo ha rivendicato e, nel momento in cui avrebbe dovuto pagare la conseguenza della suo tradimento, si è sottratto 9 giorni prima della radiazione alla pronuncia del Consiglio nazionale, sapendo che in questo modo avrebbe creato le condizioni per poter impugnare la radiazione di fronte alla magistratura ordinaria.
Ha fatto qualcosa di più e di peggio. Dal marzo del 2007, quando si è volontariamente cancellato dall’albo, al settembre del 2012 ha abusivamente esercitato la professione con lo pseudonimo Dreyfus, arrivando al punto di diffamare il magistrato Cocilovo, che accusò falsamente di aver costretto una minore ad abortire, salvo che a pagare il conto fu l’allora direttore responsabile del giornale per cui scriveva con la maschera: Alessandro Sallusti. Mi chiedo dunque si può stare nello stesso albo insieme ad un signore come Renato Farina?
Come vedi le mie dimissioni non sono un fatto personale, che pure potrei legittimamente invocare, visto che tra i suoi obiettivi della sua attività spionistica ci furono il sottoscritto e l’amico scomparso Giuseppe D’Avanzo.
Le mie dimissioni dal Consiglio nazionale sono qualcosa che interpella tutti noi: essere iscritti all’albo è oggi condizione necessaria per legge per esercitare la professione giornalistica. Ma non è condizione necessaria per esercitarla. Non si può tacere ed essere complice di questo scempio.”

Non pensi allora che sia arrivato il momento di superare il meccanismo dell’Ordine , visto che negli anni non è stato capace di autoriformarsi e che a livello europeo e mondiale la professione giornalistica viene tutelata in altro modo?
“Lo penso. Quando scelsi di candidarmi al Consiglio nazionale un anno fa e fui eletto insieme ad altri colleghi, la nostra lista aveva uno slogan: “O si cambia o si chiude”. In quello slogan c’è esattamente quello che tu mi chiedi. Ebbene, la vicenda Farina e il fatto che in questo anno il Consiglio nazionale dell’ordine abbia bocciato una proposta di riforma che immeritatamente porta il mio nome e del collega Pino Rea, second0 la quale è giornalista che fa questo mestiere, perché ritenuta troppo avanzata, dimostrano che l’Ordine ha deciso di non autoriformarsi.
Il Consiglio nazionale è un organismo pletorico e l’idea che aver superato un esame di idoneità professionale ti consegni a vita ad una professione come la nostra, anche se un minuto dopo si decide di fare dell’altro, la dice lunga.
Il fatto che il Consiglio nazionale dell’ordine sia prigioniero di alchimie bizantine tra correnti, di iscritti all’albo che lavorano non per la professione, ma per il bilanciamento di interessi di bottega di chi è professionista e chi è pubblicista, te lo dice altrettanto lunga.”

La crisi dell’editoria stampata e più in generale del settore dei media, di fronte alle innovazioni tecnologiche della crossmedialità, ha portato a forti riduzioni di occupati, a compensi ridicoli, ad una sorta di ”schiavismo professionale”, e soprattutto ad una diffusione enorme del “social journalism”. E’ arrivata la fine dell’Ordine e della nostra professione come l’abbiamo vissuta finora?
“Ho sempre pensato e a maggiore ragione lo penso in questi giorni che i giornalisti, purtroppo, siano parte del problema. Con quale credibilità una professione che conta, sulla carta, 110mila iscritti all’albo, che ogni anno con le quote di iscrizione consegna circa 11 milioni di euro ad un baraccone di questo tipo, può seriamente credere di stare a galla nella tempesta che ci sta travolgendo? Nelle democrazie moderne funzioni cruciali quali quelle della formazione, della disciplina e della deontologia giornalistica sono affidate a istituti più snelli che tengono insieme anche la funzione sindacale.
Non si capisce perché quello che funziona negli Stati Uniti o in Francia non possa e non debba funzionare anche da noi. Noi siamo il curioso paese in cui l’Ordine fa una battaglia che dovrebbe essere del sindacato, come il giusto compenso, e il sindacato accusa l’Ordine di pensare solo ad auto-perpetuarsi: in un bizantino gioco delle parti, in cui il sindacato è espressione di una maggioranza politica e l’Ordine di quella opposta. In mezzo naturalmente ci sono i giornalisti, che ormai non arrivano alla fine del mese o che vengono licenziati.Abbiamo bisogno allora di “Betulle” o di qualcosa che sia capace di raccogliere la sfida esiziale del nostro tempo, mettendoci e mettendosi nelle condizioni di vincerla?
Sarebbe ora forse che anche il Parlamento, cui per altro spetta la potestà di modificare la legge sull’Ordine, mettesse mano alla faccenda. Mi rendo conto che i giornalisti italiani non sono in cima all’agenda dei problemi, ma un paese come il nostro meriterebbe e merita un ordinamento della professione degno di questo nome. Ne guadagneremmo tutti, anche chi non fa di mestiere il giornalista, e si rafforzerebbe la qualità della nostra democrazia.”


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