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Art.18, è davvero questo il problema?

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Ma davvero il problema del nostro mercato del lavoro è l’articolo 18? È davvero questa norma a impedire investimenti e assunzioni, a dissuadere gli imprenditori stranieri dall’investire in Italia? Se abbandoniamo per un attimo l’aspro dibattito – ideologico, certo, ma anche propagandistico – di queste ultime settimane, e analizziamo la realtà economica e imprenditoriale del nostro Paese, quello che emerge è che a rendere il fare impresa in Italia una missione impossibile contribuiscono ben altri fattori.

Primo fra tutti la corruzione. Transparency International, nel 2013, ci collocava al 69° posto nella sua annuale graduatoria mondiale, tra Montenegro e Kuwait, evidenziando come il rapporto di checks and balances nel governo Italiano risulti “compromesso” a causa della “scarsa indipendenza” che il potere legislativo ha nei confronti di quello esecutivo, e denunciando le “deboli, e spesso inesistenti, sanzioni” contro i reati legati alla corruzione. Non solo: nella relazione si ribadiva anche la scarsa trasparenza dei bilanci dei partiti e il ruolo deleterio della prescrizione nei processi penali, che impedisce spesso l’accertamento delle irregolarità e il recupero del denaro. La nomina di Raffaele Cantone al vertice dell’Autorità Nazionale Anticorruzione è stata sicuramente un buon segnale, che però stride con altre decisioni prese dal governo Renzi. Innanzitutto la riforma farlocca del 416 ter, il voto di scambio politico-mafioso, non a caso definita “un’occasione persa” da Nino Di Matteo; e poi la legge sull’autoricilaggio, anche questa a forte rischio di annacquatura, grazie alla mediazione tra il ministro Boschi e l’avvocato Ghedini, per i quali l’autoricilaggio non andrebbe applicato ai reati per cui è prevista un pena inferiore ai 5 anni.

Altro grave problema del mondo del lavoro italiano è rappresentato dall’evasione fiscale, che altera la concorrenza tra le imprese e destabilizza il bilancio statale. La Corte dei Conti ha stimato l’evasione in 180 miliardi di euro, con un’incidenza sulle entrate fiscali pari a circa il 27%. Rispetto a questo tema il governo Renzi ha fatto molti annunci, ma per ora nessuna misura concreta è stata adottata per combattere l’evasione.

Come ogni anno, anche nel 2014 è stato pubblicato il rapporto di SOS Impresa, Per non fallire di mafia, che ha ricordato come la prima vera banca italiana, nonché l’azienda più solida e con maggior liquidità sia proprio la criminalità organizzata. Il fatturato annuo delle nostre mafie – si tratta di calcoli molto approssimativi, ma certamente indicativi – si aggirerebbe intorno ai 140 miliardi di euro, con utili per circa 80 miliardi. Un’economia, quella delle associazioni criminali, che non teme concorrenza, e che infatti si mostra quanto mai aggressiva: porzioni sempre più consistenti della nostra economia vengono fagocitate da imprese legate ai clan – le sole che, in questi anni di crisi, hanno disponibilità di denaro pressoché illimitate. E ovviamente lo strapotere mafioso si ripercuote anche sulla sicurezza e la stabilità delle aziende sane. I reati estorsivi sono in continuo aumento, e circa 200mila commercianti (oltre il 19% del totale) finiscono con l’affidarsi al mercato dell’usura, che ammonta a 20 miliardi all’anno.

E qual è la risposta della Giustizia italiana a questa drammatica situazione? Secondo le stime di Confartigianato (qui il comunicato stampa, del 28 agosto scorso) la durata dei procedimenti civili per la risoluzione delle dispute commerciali nel nostro Paese è abnorme: un imprenditore italiano deve attendere circa 1185 giorni per una sentenza, a fronte di una media europea di 544 giorni. Peggio di noi, in Europa, soltanto la Grecia, mentre in Germania e in Francia la durata si aggira intorno ai 395 giorni: 2 anni e 2 mesi in meno che da noi. Davvero i provvedimenti adottati da Renzi e Orlando varranno, come ha annunciato il premier, a dimezzare la durata dei processi civili? Pare proprio di no, almeno a giudizio di Piercamillo Davigo: soprattutto perché, ancora una volta, non si è pensato ad introdurre alcuna misura per scoraggiare i cittadini dall’intentare pretestuosamente delle cause, e dal cercare in ogni modo di prolungare i tempi dell’iter processuale.

Il risultato di tutti questi gravi problemi è sintetizzato molto efficacemente dal rapporto Doing Business, che ogni anno stila una graduatoria dei Paesi in cui è più facile fare impresa. L’Italia risulta al 67° posto di questa graduatoria (che, di nuovo, va presa come un’indicazione di massima), tra lo stato di Saint Lucia e Trinidad e Tobago. E alcune voci specifiche danno ancor più la misura delle reali difficoltà per l’impresa italiana: 90° posto per la facilità di creare nuove aziende, 89° posto per la disponibilità dell’energia elettrica, 109° per possibilità di accesso al credito, 138° posto per la pressione fiscale.

Possibile che, a fronte di questi dati, la priorità che il governo riscontri per rianimare il mercato del lavoro in Italia sia la riduzione delle tutele sindacali dei lavoratori? O non sarà che, sul tavolo delle contrattazioni europee, per ottenere qualche compromesso sugli stringenti parametri fiscali, c’è bisogno di dimostrare la volontà di indebolire lo stato sociale? In fondo è qualcosa che è stato teorizzato molto chiaramente dalla banca d’affari JP Morgan, la quale, in una relazione del maggio 2013, denunciava la natura antifascista delle costituzione del sud Europa, influenzate da “idee socialiste”, quale ostacolo “ad una maggiore integrazione dell’area europea”. Tra le caratteristiche negative dell’ordinamento di questi Paesi, venivano citate proprio le “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori”.

Il presidente Renzi ha detto di credere alle coincidenze. E anche noi vogliamo crederci. Però forse, a questo punto, sarebbe almeno il caso di chiarire quali siano i fantomatici Poteri Forti a cui lui, con le sue politiche, è intenzionato ad opporsi.


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