Inchiesta sul sistema che sta portando moltissimi nuovi donatori alle principali sigle non profit. I “dialogatori” in strada raccontano di precariato, bassi compensi e scarse tutele. Le associazioni si difendono: facciamo formazione, ma con le agenzie esterne non abbiamo potere
ROMA – “Un minuto per Save the children?”, “Scusi, una parola su Greenpeace?”, “Salve, conosce l’Unhcr?”. Negli angoli delle strade più affollate, all’uscita delle metropolitane o nelle piazze del centro delle grandi città, sempre più spesso si sentono riecheggiare frasi come queste. Preludio di un abbordaggio del passante di turno a cui far sottoscrivere una donazione per aiutare l’associazione, l’ente o l’ong a portare avanti i propri progetti. Il metodo, ben consolidato, è quello del fundraising face to face, a cui ormai tutte le più grandi organizzazioni fanno ricorso, perché si tratta di una modalità che paga. In tempi di crisi delle donazioni, infatti, attraverso il contatto diretto si portano a casa quote consistenti di fondi, che sfiorano in alcuni casi anche l’80 per cento delle nuove donazioni annue.
Ma se il metodo indubbiamente funziona, il rovescio della medaglia è formato da un esercito di ragazzi, quasi sempre precari e senza tutele. Spesso giovanissimi, lavorano nella maggior parte dei casi a cottimo (retribuzione commisurata al raggiungimento degli obiettivi) attraverso agenzie di comunicazione specializzate, che li formano sui principi del marketing. E così i dialogatori in strada, venditori ambulanti di donazioni, passano giornate intere a battere le città per portare a casa uno stipendio mensile che sia minimamente commisurato allo sforzo fatto. Redattore sociale ha raccolto le loro testimonianze e contattato direttamente le organizzazioni coinvolte.
Il face to face funziona: l’80 per cento dei nuovi donatori contatti in strada. “Quella del face to face è una forma di raccolta fondi che non ha conosciuto crisi – spiega Giancarla Pancione, responsabile area donatori individuali di Save the children – Per noi i dialogatori sono fondamentali perché sono il nostro biglietto da visita nelle strade. Per questo investiamo molto sulla loro formazione”. Grazie ai dialogatori in strada nel 2013 l’organizzazione ha acquisito 35mila nuovi donatori, che hanno fatto una donazione media annuale di 204 euro. E i dati sono incoraggianti anche per le altre organizzazioni da noi contattate (Unicef, Unhcr, ActionAid, Save the children e Greenpeace). In alcuni casi si arriva all’80 per cento dei nuovi donatori acquisiti grazie a questa modalità.
“Noi mercenari del non profit, paghe da fame nell’indifferenza delle organizzazioni umanitarie che rappresentiamo”. Sul fronte dell’impiego, però, quello del face to face è un mondo molto variegato e non esente da sistemi di precariato. La maggior parte dei dialogatori viene reclutata, infatti, attraverso apposite agenzie di comunicazioni e direct marketing, che li impiegano con contratti a cottimo o a provvigione. Anche parte della formazione è svolta dalle agenzie e spesso, più che sui temi umanitari, i ragazzi vengono istruiti sulle tecniche di vendita più efficaci. “Siamo dei mercenari, mercenari del non profit sì, ma pur sempre mercenari. Il nostro unico obiettivo è beccare la preda giusta, di sociale c’è ben poco”, spiega Marianna che a Roma ha lavorato per Unhcr, Save the children e Unicef. La sua testimonianza, insieme a quella di altri ragazzi, racconta un mondo di giovani precari, senza tutele e paghe da fame. Nel mirino ci sono le agenzie che fanno da tramite, come la Appco, leader nel settore. Ma indirettamente le accuse ricadono anche sulle organizzazioni di cui i dialogatori si fanno portavoce negli angoli delle città. “Si pensa ai diritti dei rifugiati, dei bambini, dell’ambiente, ma non di coloro che permettono alle raccolte fondi di proliferare – aggiunge Maura -, non c’è neanche niente di illegale, perché formalmente siamo collaboratori o liberi professionisti, ma di certo è tutto poco etico, soprattutto se si pensa che a commissionare il servizio face to face sono spesso ong o associazioni che si occupano di tutela dei diritti”.
“Per noi i dialogatori sono una risorsa, il nostro biglietto da visita, curiamo noi la loro formazione”. Ma le organizzazioni respingono al mittente tutte le accuse, in particolare quelle che parlano di figure mandate in strada solo per vendere. “Curiamo la formazione di questi ragazzi con figure dedicate – spiega Federico Clementi, responsabile Fundraising di Unhcr – C’è un responsabile che ogni 30, 40 giorni fa il giro di tutta Italia per formare i dialogatori dell’organizzazione. Sempre sul fronte dei contenuti, i ragazzi che fanno face to face vengono costantemente aggiornati, anche attraverso newsletter, sui temi di cui ci occupiamo”. “Quanto al rapporto contrattuale – aggiunge – noi possiamo arrivare fino a un certo punto, perché il rapporto d’impiego è tra i ragazzi e le agenzie. Come Agenzia delle Nazioni Unite abbiamo procedure precise alle quali i nostri fornitori sono chiamati a rispondere, ma non possiamo andare a sindacare sul rapporto privatistico che hanno con questi lavoratori”. Ma c’è anche chi, come ActionAid ammette che c’è un ampio dibattito, interno alle organizzazioni, sul modo in cui vengono impiegati questi ragazzi: “se ci occupiamo di diritti umani non possiamo non pensare alla tutela delle persone che lavorano per noi. Non si possono retribuire solo a provvigione persone che passano intere giornate in strada a raccogliere fondi per noi”. (ec)