In questi giorni, si fa un gran parlare dell’articolo 18 dello Statuto dai Lavoratori, posto, ancora una volta, al centro di un dibattito politico che si commenta da solo, fra i toni inadeguati del Premier e le richieste irricevibili di un centrodestra in cerca di un vessillo da seguire dopo il drammatico fallimento della stagione berlusconiana. Ma cos’è, al netto delle polemiche contingenti, l’articolo 18? Perché suscita tante passioni ed eccita gli animi ogni volta che si torna a parlare di riforma del mondo del lavoro? Al netto delle dispute cui stiamo assistendo, l’articolo 18 è un simbolo ed è l’emblema dell’ideologia più avanzata che si sia mai avuta nel nostro Paese, ossia una visione del lavoro e dei diritti che poneva al centro l’uomo e lo sviluppo della sua personalità, in un rapporto sinergico con la fabbrica e il territorio, fondato sull’idea straordinaria di una crescita collettiva della comunità che accompagnasse quella dei singoli individui. Ma non è solo questo: è molto di più. Come ha spiegato recentemente Maurizio Landini, è il compimento effettivo della Costituzione , in quanto, dopo la sua approvazione, i principi fondamentali e imprescindibili della Carta trovarono un’attuazione anche nei luoghi di lavoro in cui, fino a quel momento, erano stati ignorati.
Perché alla base dell’articolo 18, come di tutto lo Statuto dei Lavoratori, c’è il concetto, più volte ribadito dal professor Rodotà, di concedere a ciascuno il diritto di avere diritti, trasformando in cittadini con pari dignità anche coloro che, fino ad allora, si erano considerati ed erano stati trattati come sudditi, vassalli di uno sviluppo economico smodato e diseguale, dannoso ed iniquo, privo di tutele e dignità, feroce ed umiliante nei confronti dei ceti sociali più umili.
L’articolo 18, per fare un esempio che dovrebbe essere caro anche all’attuale classe dirigente del PD, è la conquista sociale che consentì agli operai che si presentavano in fabbrica con “l’Unità” in tasca di non essere discriminati per il semplice fatto di condividere le idee e i valori di riscatto degli ultimi propri del pensiero gramsciano.
Perché è bene ricordare che un tempo, si veniva dal fascismo e l’Italia era ancora in macerie, in alcune fabbriche l’operaio con in tasca “l’Unità” non godeva degli stessi diritti di cui godeva colui che accettava ogni forma di vessazione senza battere ciglio: poteva essere licenziato solo per questo. Lo Statuto dei Lavoratori, dunque, non è stato varato per ingessare il sistema né per dar luogo a odiose discriminazioni fra chi gode di determinate garanzie e i giovani senza tutele e senza prospettive: è nato nel 1970 per le ragioni esattamente opposte, per contrapporre le forza del diritto alla barbarie del sopruso, per dar voce, prestigio e dignità sociale a chi non ne aveva mai avuta, per consentire di difendersi a chi non ha una cultura nè appoggi sufficienti per far valere i propri diritti.
Ed è anche il principio su cui si fonda l’idea che il figlio dell’operaio e quello del docente universitario possano godere delle stesse opportunità, senza che il primo debba rassegnarsi a un avvenire di precariato, ignoranza e miseria.
In poche parole, l’articolo 18 è nato per fare uscire dal silenzio chi aveva più bisogno di gridare le proprie rivendicazioni, di far sentire la propria voce, di sentirsi partecipe e protagonista di una società escludente, realizzando il senso più alto e nobile della politica, la ragione per cui la politica è nata e continua ad esistere e appassionare milioni di persone.
Quanto alla sinistra, diceva Norberto Bobbio che essa deve stare dovunque ci sia una riforma da varare ma, soprattutto, dovunque ci sia un diritto da difendere perché non è affatto vero che la vocazione riformista sia in contrasto con la difesa dei diritti; al contrario, la vocazione riformista è la fase attuativa delle battaglie sociali, il passaggio dalla protesta alla proposta, la realizzazione di un progetto di governo che parta dal basso ed esplichi la sua azione secondo quella maieutica dossettiana di cui oggi avremmo più che mai bisogno, anche per restituire un senso a tutti quei corpi sociali senza i quali è la democrazia stessa a deperire.
L’articolo 18, in conclusione, è l’architrave su cui si regge la struttura sempre più fragile della nostra democrazia: se saltasse, verrebbe meno un’idea di Nazione fondata sul diritto per lasciar spazio a un’idea di Nazione basata sulla legge del più forte. Verrebbe meno, insomma, la motivazione stessa del nostro stare insieme perché l’articolo 18 è anche un’idea di convivenza civile e costruttiva che, in realtà, dovrebbe essere alla base del patto produttivo fra capitale e lavoro nonché il punto d’incontro fra mente e mano, intelletto e pragmatismo, pensiero e azione.
E no, tutto questo non sta scritto su Twitter né è riducibile ad un hashtag o sintetizzabile in un videomessaggio.