Il voto politico in Svezia e quello regionale in Germania (i due land Brandeburgo e Turingia) hanno confermato l’onda lunga del fenomeno euroscettico nell’Unione. Oltre ad un lieve incremento dei socialdemocratici e della sinistra più in generale, queste elezioni in due stati economicamente più in salute rispetto agli altri dell’UE, con tassi di disoccupazione inferiori alla media e il PIL in ascesa, a preoccupare le cancellerie è l’avanzamento a due cifre dei partiti della destra xenofoba e anti-europea (tra il 10% e il 12%). Sia in Svezia come in Germania questi rappresentano non tanto i settori emarginati delle periferie, sottoproletari e giovani disoccupati, spesso anche di origine araba, come in Francia, Belgio e Italia; ma, sulla falsariga del UKIP inglese di Nigel Farage, pescano il loro elettorato tra i pensionati sempre più tartassati e alle prese con un welfare assistenziale meno onnicomprensivo, ed ora anche tra i ceti medi produttivi, la media borghesia “spremuta” dai carichi fiscali dovuti alle politiche di “austerità e solidarietà, volute da Bruxelles”. E poi c’è il collante della paura psicologica verso “i diversi” e della mal sopportazione degli “extracomunitari”, soprattutto gli emigrati e i rifugiati che ogni anno ingrossano le fila degli “incapienti”, spesso islamici, che sopravvivono grazie ai contributi dello stato sociale, ancora generoso nei paesi dell’Europa del Nord.
Alle recenti elezioni europee, segnate da un forte astensionismo (si è passati dal 62% di votanti nel 1979 all’attuale 43%), i partiti genericamente classificabili come “euroscettici” avevano guadagnato il 20% dei seggi sui 751 disponibili nell’Europarlamento di Bruxelles/Strasburgo: come il Front National di Marine Le Pen, la Lega Nord italiana di Salvinie il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, l’UKIP di Nigel Farage in Gran Bretagna, gli svedesi di Sveriges Demokraterna del giovane Jimmy Akesson, i tedeschi di Alternative fuer Deutschland-AfD, guidata da Bernd Lucke, i nazionalisti fiamminghi del Vlaams Belang o quelli olandesi del Partito della Libertà e gli ungheresi dello Jobbik.
In Svezia e in Germania i partiti della destra euroscettica sono riusciti ad intercettare il malessere sociale e il disagio culturale di settori elettorali che un tempo votavano sia per la sinistra sia per la destra radicale. Jimmy Akesson e Bernd Lucke hanno abbandonato furbescamente gli orpelli del nazionalsocialismo d’antan, per abbracciare modi di comunicazione moderni e accattivanti e parole d’ordine più consone allo stato di crisi che stiamo attraversando: mantenimento del welfare per non penalizzare gli strati sociali meno protetti e più tassati (pensionati e giovani disoccupati, ma di nazionalità tedesca o svedese); ritorno alla moneta come il marco tedesco o comunque penalizzazione per i “paesi mediterranei” (Euro a due velocità o addirittura “espulsione” dalla moneta unica),ritenuti meno virtuosi e non affidabili dal punto di vista delle politiche di bilancio rigoriste e troppo accoglienti invece per profughi e rifugiati; reciprocità, tutela e rafforzamento dei “valori tradizionali” cristiani contro il “permissivismo laicista” dell’Unione Europea nei confronti di usi e costumi islamici; blocco anche dei flussi migratori tra gli stessi cittadini comunitari che si spostano in cerca di lavoro.
Non è certo una “guerra di religione”, ma siamo anche qui vicini ad uno “scontro di civiltà” tra Nord e Sud dell’Europa, un’espressione atavica e irrazionale del conflitto di interessi interclassistici, trasversali, che cercano di trovare un nemico di facile identificazione demagogica, anziché affrontare con le armi della dialettica democratica e con il razionalismo politico lo stato di crisi economica, sociale e culturale che attraversa tutta l’Europa.
Ci sono poi la contrarietà di una parte cospicua dell’opinione pubblica europea a qualsiasi formula di “grosse koalition” negli singoli stati e a livello dell’Europarlamento e la ricerca dell’identitarietà, sia culturale-politica sia nazionalista-territoriale. E’ una destra nuova con la quale dover confrontarsi senza però gli schematismi ideologici di una volta.
Se in Francia spaventa non solo i partiti di destra e sinistra, ma anche gli ambienti imprenditoriali e finanziari l’ipotesi adombrata dagli ultimi sondaggi, secondo cui la leader del Front National, Marine Le Pen, potrebbe uscire vincitrice al primo turno nelle elezioni presidenziali del 2017; in Gran Bretagna, dopo lo shock della vittoria dell’UKIP dell’anticonformista Farage, oggi i mercati e i “poteri forti” temono la ventilata ipotesi della vittoria dei “Sì” al Referendum secessionista che si terrà il 18 settembre in Scozia.
Lo Scottish National Party di Alex Salmond è ad un passo dalla vittoria e l’eventuale “distacco” da Londra potrebbe diventare un volano per le neppur tanto sopite velleità di secessione presenti in Belgio nella comunità fiamminga, in Spagna nella Catalogna, che di recente ha portato in piazza circa 2 milioni di manifestanti separatisti, nella stessa Italia dove la Lega Nord del giovane e aggressivo Salvini sta già scaldando i motori, per rilanciare i suoi Referendum separatisti in Lombardia e in Veneto.
Ma sarà davvero la Comunità delle Regioni europee la prossima fine dell’Unione Europea a mosaico, aggrovigliata da una crisi economica e budgetaria unica nella sua storia, in prima fila nella “guerra di liberazione” del Medio Oriente dal Califfato dell’ISIS insieme agli USA, incapace però di fornire risposte adeguate ai suoi cittadini, orfani di sicurezze lavorative, assistenziali, sociali e, nonostante ciò, strozzati dalla maggiore pressione fiscale del mondo occidentale?