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La maggior contraddizione

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Gli scienziati politici sono una specie particolare dell’universo accademico internazionale: da una  parte, a loro più che ad altri studiosi, si usa chiedere previsioni sul futuro della politica e su quello che succederà nei prossimi anni e questo non soltanto in Italia, ma in tutti i paesi in cui mi è capitato di andare negli ultimi anni, perché  – rispetto agli storici e ad altre specie di quell’universo – sono più audaci e avventurosi (Sartori è, nel nostro Paese, l’esemplare più noto!) e anche per la consuetudine propria di quella specie di usare stereotipi e generalizzazioni preziose per immaginare quello che potrà succedere. Naturalmente la riuscita dipende dalla bravura dei soggetti e non si può generalizzare. Ma, per ritornare al soggetto prescelto ,a me pare di cogliere una grande contraddizione che attraversa da più di due secoli la nostra storia e che molti hanno difficoltà a dire con chiarezza e questo potrebbe servire ed aiutarci a scegliere.

Parlo del federalismo repubblicano ,che ha costituito nel nostro passato recente un ideale largamente condiviso a sinistra, come a destra, e che ha avuto tra i suoi fervidi sostenitori un autore che ho sempre amato come Carlo Cattaneo, fondatore de IL POLITECNICO, che ha scritto idee fondamentali sull’argomento (e basta ricordare gli Stati Uniti d’Italia o Le Notizie naturali e civili  su la Lombardia o ancora il saggio del 1848 Dell’insurrezione di Milano per trovarvi una vera e moderna teoria della libertà) o ancora il filosofo del diritto torinese che ho avuto la fortuna di conoscere e di avere, con Galante Garrone, tra i miei maestri nell’ateneo torinese, cioè Norberto Bobbio che- proprio nel 1945, all’uscita di una giovinezza passata sotto il dominio del regime fascista in Italia, pubblicò dal piccolo ma importante editore Chiantore, gli Stati Uniti d’Italia e analizzò a fondo quello scritto così importante del grande lombardo.  Ebbene, l’uno e altro autore (a me ambedue così cari) sostengono – a ragione – che l’autogoverno, democratico e organizzato dal basso, favorisce l’unità di un popolo e l’ascesa prima a una città, poi a una regione, poi alla nazione e, poi ancora all’Europa e al mondo, più di altre forme di governo.

Ed io istintivamente consento con un simile modo di argomentare. Ma ho anche trascorso la maggior parte della mia vita in Italia e per il mestiere che faccio (lo studioso del passato, anche recente) non posso dimenticare alcune caratteristiche essenziali del nostro popolo e non è necessario andare fino al Discorso sopra lo Stato presente dei costumi degl’Italiani del 1824 (riedito da Bollati Boringhieri con un arguto commento di Franco Cordero nel 2011, l’anno dell’ultima caduta  o a quello dell’amico Alberto Asor Rosa, che 141 anni dopo,  ritrae la lettura populista in Italia nel saggio, pubblicato da Samonà e Savelli, su Scrittori e popolo.) Alcune caratteristiche di fondo sembrano prevalere sulle altre, secondo un delizioso libretto, pubblicato nel 1997 dalla sociologa Loredana Sciolla (Italiani di casa nostra, il Mulino editore) che sottolinea – innanzitutto – la debolezza del sentimento di identità nazionale che si esprime in  due dimensioni principali: il senso di continuità storica e il senso di un primato.

E così la difficoltà antica di fare i conti con il proprio passato e di riconoscersi in un’unica grande storia porta i nostri connazionali, può spingerli a cercare di trovar le proprie radici nella “piccola  storia” della propria città, del proprio paese o della propria vallata. E le identificazioni che l’italiano pratica del riferimento al comune o alla località in cui abita sono molto comuni. Altri due elementi che emergono riguardano il senso di declino e quello di disprezzo per i connazionali e per sé stessi. C’è una tendenza, che sembra invincibile, all’autodenigrazione e all’accettazione di stereotipi negativi che ci legano come se fossero verità inconfutabili a tare antropologie ereditarie. E naturalmente se ci andasse a una maggiore ricomposizione della frattura che oggi esiste, forse più di ieri, tra il sistema politico e gli italiani si potrebbe lavorare per un recupero positivo dell’immagine dell’Italia.  Ma, ritornando rapidamente allo spunto di questo articolo, perché in Italia, almeno finora, il federalismo repubblica no non ha mai avuto fortuna e ormai nessuno – se si esclude la decadente Lega post-bossiana – ritiene di poterla riprodurre e, al contrario, le associazioni mafiose si aggirano, con discreta fortuna, in giro per la penisola, provocando vittime e scontri ?

E ha avuto ragione il romanziere genovese  Sebastiano Vassalli a parlare dell’italiano come un popolo bambino, pieno di virtù ma portato a sbagliare (non dimenticando che ha avuto tre copyright in cui si mescolano il bene e il male, per così dire, e sono – come è noto –  la pizza, il fascismo e la mafia). Dobbiamo concludere, insomma, che federalismo e repubblica sono ideali di grande qualità ma inapplicabili al nostro Paese e dobbiamo tenerci per chissà ancora quanto tempo i governi e i parlamenti che abbiamo, incluso il grande capo dei populisti, ex senato re e cavaliere, residente ad Arcore nella sua villa, provvista persino di una tomba e – quindi – adatta all’eternità.


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