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Il lavoro non è una merce. L’articolo 18 è l’avamposto più avanzato di questa concezione

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Un’economia moderna, e degna di questo nome, in grado di avere una elevata competitività e quindi di incoraggiare la ricerca scientifica necessaria puntando sull’innovazione di processi e di prodotti e promuovendo – di conseguenza – occupazione è proprio  ciò di cui l’Italia ha sicuramente bisogno.

In un Paese come il nostro, nel quale le Partecipazioni Statali nell’industria (che hanno accompagnato quasi un secolo di storia) non esistono più, la lotta che l’attuale governo delle larghe intese, con l’appoggio determinante del Nuovo Centro destra di Angiolino Alfano e, in certi casi, persino di Forza Italia, e in cui – se si escludono la Fiat-Chrisler di Marchionne e l’ENI di De Scalzi e dei suoi collaboratori – ci sono soprattutto piccole imprese che copiano i loro prodotti, affidandosi al “genio italico”, il rischio è che le politiche di austerità e di precarietà espansiva, che informano tuttora la Commissione Europea (vedi le Raccomandazioni del giugno 2014), continuino influenzare i paesi dell’Eurozona a cominciare dall’Italia. Vale la pena ricordare che le politiche di austerità espansiva, con il rigore dei conti, hanno agito sulla base della idea sbagliata, in base alla quale il contenimento dei deficit pubblici avrebbe permesso di conseguire la riduzione dei debiti e avrebbe liberato risorse che i privati avrebbero potuto utilizzare in maniera efficace. Ma, praticando una simile politica economica, non si è tenuto conto del “vuoto di domanda” provocato dall’arretramento del pubblico in un Paese nel quale la presenza dell’industria di Stato aveva avuto un ruolo determinante negli anni del decollo industriale prima negli anni Trenta e poi  negli anni Cinquanta e Sessanta.

L’esito di una simile politica è stato che proprio per il rigore dei conti i debiti, invece di diminuire, sono aumentati: nell’Eurozona si è passati da un rapporto precedente del 65% sul Prodotto Industriale Lordo a una soglia che ha superato il 95 % e nello stesso tempo la crescita del reddito si è semplicemente azzerata  mentre quella dell’occupazione si è semplicemente fermata. Forse non è il caso di ricordare ancora una volta ai nostri lettori i dati allarmanti del nostro Paese che vanno oltre il quaranta per cento nell’occupazione dei giovani e non hanno perduto un punto nella disoccupazione complessiva.

Ma anche le politiche della precarietà espansiva, cui si accennava prima, hanno avuto il loro pilastro principale nella flessibilità del lavoro sul piano del contratto e della retribuzione. Purtroppo gli esiti sul piano dell’offerta e della domanda si sono rivelati negativi giacché si è ridotta la platea del lavoro tutelato ed è aumentata quella del lavoro non tutelato: si è realizzata una sostituzione di lavoro più che una creazione di lavoro con una riduzione di tutele e di diritti sia per chi li aveva conquistati nel passato sia per chi sperava in una diminuzione dello stato di precarietà lavorativa e sociale. Ma anche le retribuzioni nominali sono state compresse e quelle reali sono diminuite.

Queste ultime – è stato ormai dimostrato – non hanno tenuto il passo della crescita, peraltro debole, della produttività.
Dall’inizio del ventunesimo secolo, la quota distributiva del lavoro è sostanzialmente diminuita e il declino si è accentuato nei paesi dell’Eurozona, a cominciare – è facile constatarlo – dall’Italia. E la politica di svalutazione interna, caricata sul lavoro, ha prodotto due effetti negativi: da un lato, c’è stato il contenimento della domanda di beni e servizi che trae origine dai redditi di lavoro, andando ad aggravare gli effetti negativi delle politiche di austerità sulla domanda interna. Dall’altro lato, la competitività del sistema non ha tratto alcun vantaggio, se è vero che  sia per gli effetti di scala (minori volumi di produzione) che per quelli di sostituzione (lavoro meno retribuito e meno produttivo), la dinamica della produttività langue in tutta l’Europa e in Italia da vent’anni è stagnante mentre i salari nominali sono felicemente bloccati. Di qui le richieste, che partono da determinati settori imprenditoriali, di buttare a mare i contratti nazionali  e puntare esclusivamente – o nella massima parte – su quelli  aziendali. Del resto, l’anarchia del mercato, che da tempo si realizza, non poteva che portare ad esiti negativi come quelli a cui stiamo assistendo.

La verità è che le scelte fatte negli ultimi anni hanno portato, in quasi tutti i settori, a un accumulo di sovraccapacità produttività, sempre più difficile da smaltire e soprattutto da sostituire. Qui sta la ragione essenziale della crisi che stiamo attraversando in Europa come in Italia e  l’incapacità di superarla se non mettiamo mano all’insieme del modello di sviluppo: modello produttivo e modello di consumo.

Da questo punto di vista, non c’è dubbio che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori rappresenta storicamente l’avamposto più avanzato di una concezione che pensa al lavoro non come a una merce tra le altre propria del diritto commerciale ma l’aspetto essenziale di ogni persona che può essere protetta, proprio dotandola di un diritto preciso, che è appunto il diritto al lavoro.


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