Da lsdi.it
A livello globale, nell’ultimo decennio la TV digitale e Internet hanno avuto un impatto formidabile sull’ industria mediatica, sui giornalisti e sui cittadini in generale – grazie alla proliferazione di piattaforme ad hoc, il rimescolamento di aziende e attività, la cornucopia di news per tutti.
A fine 2013, oltre il 55 delle famiglie nel mondo riceveva il segnale della TV digitale – il 25 per cento in più rispetto al 2008 e con punte superiori all’ 81 per cento in più nei Paesi in via di sviluppo. Per non parlare ovviamente dell’ascesa dei dispositivi mobili: entro fine 2014 si prevede verranno usati da 2,3 miliardi persone.
Eppure quest’ampia digitalizzazione non ha portato a una maggior partecipazione e apertura dei canali d’ informazione statali: i media digitali e il giornalismo investigativo hanno trainato il cambiamento sociale in meno di un terzo dei Paesi presi in esame, mentre raramente si è concretizzata la (tanto attesa) diversità di fonti disponibili. È quanto si deduce dal recente rapporto della Open Society (fondata da George Soros) sulle attività dei media digitali in 56 Paesi, dalla Cina all’Egitto, dal Nicaragua al Montenegro.
L’indagine, denominata Mapping Digital Media, ha interessato oltre 4,5 miliardi di persone e 16 tra le maggiori economie del pianeta, analizzando in particolare le minacce al lavoro dei reporter indipendenti dovuto a policy, norme e regolamentazioni varie che, quando va bene, appaiono inadeguate per l’attuale contesto digitale, e, nei casi peggiori, diventano palesemente repressive e censorie.
Da questa mappatura globale si possono ricavare alcuni trend generali: Governi e politici sono ancora troppo influenti rispetto a regolamentazioni e operatività delle testate nazionali; in troppi mercati vigono tuttora pratiche monopoliste, corrotte o non-trasparenti; le speranze di cambiamento veicolate dal giornalismo online indipendente devono spesso destreggiarsi tra la sorveglianza e la censura di Stato; i dati reperibili a livello mondiale appaiono disomogenei, non-standardizzati e spesso proprietari anziché liberamente accessibili.
Certo, si è avuta la proliferazione di piattaforme e strumenti auto-gestiti per spingere il giornalismo investigativo, insieme alla crescita esponenziale di spazi per la libertà d’espressione delle minoranze, in particolare quelle etniche e sessuali. Tuttavia, mentre in Europa la transizione al digitale è cosa ormai fatta, in Sud-america e Africa si procede al rallentatore e ancora più indietro sono alcune nazioni asiatiche. In Kenya, Nigeria e Sud Africa, per esempio, il “digital divide” è direttamente proporzionale all’accesso all’elettricità. E mentre in Russia e Cina s’impongono per legge canali d’informazione centrati sull’interesse pubblico, in pratica spesso ciò si traduce in propaganda di Stato. Invece altrove mancano del tutto policy a tutela dell’interesse pubblico nel passaggio all’informazione digitale: è il caso di Bulgaria, Egitto, Marocco e Pakistan, fra gli altri.
Per quanto riguarda il giornalismo indipendente, si citano infine vari casi di censure e repressioni in atto, aggiungendo però che l’effetto più negativo in quest’ambito è dovuto alle “inserzioni statali”: con la drastica caduta della pubblicità e dei finanziamenti privati, spesso sono i contenuti pagati dai governi a sostenere le testate locali. Va da sé che simili “inserzioni” vengono usate per discriminare proprio contro quelle fonti critiche sull’operato dei governi stessi, e qui gli esempi includono Paesi quali Pakistan, Georgia, Colombia, Ungheria e Spagna.
Il rapporto Mapping Digital Media è disponibile sotto licenza Creative Commons (file PDF).