Qualcuno ha scritto che proprio il passare del tempo, a volte, fa giustizia di quello che, in un primo tempo, non era apparso chiaro né comprensibile. E ora, forse, nel processo di Palermo sulla trattativa, come in quello di Appello contro gli ufficiali del Ros, Mario Mori e Raffaele Obinu, assolti in precedenza dai giudici di primo grado. E’ possibile che oggi – a distanza di oltre vent’anni dal biennio fatale delle stragi di Palermo – il biennio ’92-93, che portò all’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino e delle loro scorte, si incominci a intravvedere qualcosa di più su un punto importante della nostra storia cioè i rapporti da sempre esistenti e mai confessati apertamente, tra i confidenti e le forze dell’ordine (come la magistratura) e, ancora di converso, quelli che segnano la zona grigia che si determina tra le associazioni mafiose e quelli che, a un certo punto, cercano di uscirne e – come si dice in gergo – si pentono. E’ quello che sembra emergere non soltanto dalle confessioni di un nuovo pentito nelle indagini che il procuratore generale della Corte di Appello di Palermo, Roberto Scarpinato, ha aperto sui rapporti tra i mafiosi di Bagheria, come appunto Flamia, uomo a quanto pare dell’ex capomafia Provenzano, e vari agenti dei servizi segreti italiani (Flamia ha raccontato di essere stato regolarmente stipendiato dai servizi e di aver ricevuto una somma equivalente a centocinquantamila euro). Ma anche da altri elementi che si aggiungono al quadro complesso, e in divenire, del processo davanti ai giudici di Palermo che vede un team di pubblici ministeri tra i quali il pm Di Matteo, il quale continua a ricevere minacce da Cosa Nostra. Non è un caso, peraltro, che, il 3 settembre scorso, c’è stata una irruzione nella stanza del procuratore generale e, sulla sua scrivania, è stata trovata una lettera anonima: “Lei sta esorbitando dai suoi compiti e dal suo ruolo. Noi non facciamo eroi. ”
Ma quali sono, nella realtà, gli altri elementi che si aggiungono giorno dopo giorno a quel che già si conosceva sulla trattativa e che ancora oggi inquietano alcuni politici (tra i quali l’attuale segretario del Partito democratico e presidente del Consiglio Matteo Renzi, tanto da spingerlo a criticare generalmente i magistrati in una maniera insolita e non motivata, almeno da parte della coalizione di centro-sinistra)?
Il primo elemento è, a mio avviso, la versione che l’ex procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, ha definito, ieri in un suo articolo, rispetto alla mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 dopo la cattura del boss. Caselli ha detto oggi con chiarezza che fu il ROS a chiedergli che “la perquisizione già decisa dalla procura non si svolgesse immediatamente, in modo da poter realizzare operazioni di vasta portata già programmate. Così venne deciso, nella certezza che il “covo” sarebbe stato tenuto sotto costante osservazione. Invece, senza mai avvertirci, non fu disposta alcuna sorveglianza. Il risultato si sa: il “covo” fu impunemente svuotato dai mafiosi. Una vicenda grave e oscura. Per noi un’autentica mazzata.” Una spiegazione, come sempre, onesta ma – ancora oggi – è difficile capire come tutto sia successo. Perché il Ros si comportò così stranamente? A giudicare dai tempi attuali dei nostri processi, c’è il rischio che passino ancora molti anni prima che si possa rispondere a un simile interrogativo anche se, prima o poi, una risposta da parte dei due ufficiali o da altre circostanze finalmente chiarite potrà venire.
E il secondo elemento, non del tutto chiaro, riguarda – come è ovvio – il rapporto e le conseguenze di esso tra alcuni capimafia e uomini vicini alla mafia (come sarebbe stato, sempre – secondo Flamia – che rimetterebbe in discussione l’attuale impianto accusatorio della mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso nel 1995:” Luigi Ilardo – ha detto – lo tenevamo lontano perché era un confidente.” Anche questa è una novità rispetto alla ricostruzione che si incominciò a mettere insieme alla metà degli anni novanta per venire a capo della mancata cattura di Provenzano e che aveva dipinto il militare Ilardo come un combattente della lotta contro Cosa Nostra piuttosto che come un confidente delle forze dell’ordine. Insomma, il quadro dei rapporti tra i diversi interlocutori dello scenario principale sui rapporti tra mafia e politica sembra farsi per certi aspetti ancora più complesso e difficile da decifrare anche perché, con ogni probabilità, ci mancano notizie su altre forze presenti nella partita ma ancora, poco o per nulla, note a chi studia e osserva. Una constatazione, quest’ultima, che ora è il caso di fare, senza esitazioni ulteriori. Peraltro, proprio la mia lunga esperienza di ricercatore mi fa dire che la certezza (o almeno la vicinanza ad essa) su un episodio storico-soprattutto, se importante e significati vo come quello di cui parliamo-si può raggiungere a poco a poco e di frequente con il concorso non di un solo studioso ma di molti che collaborano a un obbiettivo comune: tramandare a chi verrà dopo di noi la memoria di quelle vicende. In questi anni è stato fatto un primo passo avanti ed ora speriamo che ce ne siano presto altri.