Tralasciando il dibattito, francamente stucchevole, in corso in questi giorni nel PD se sia più giusto dedicare l’imminente Festa dell’Unità a De Gasperi o a Togliatti, è opportuno invece soffermarsi, nel cinquantesimo anniversario della scomparsa, su questo protagonista della politica italiana. Personaggio complesso e controverso, non c’è che dire: artefice del ritorno del Paese alla democrazia, punto di riferimento durante l’Assemblea Costituente e personalità in grado di compiere un miracolo politico-culturale senza precedenti e senza eguali, ossia riunire nello stesso partito operai e intellettuali, menti e braccia, la forza di chi rivendicava a gran voce i propri diritti calpestati e le competenze giuridiche e letterarie di chi era in grado di trasformare quelle battaglie in lotte collettive in nome della dignità del lavoro e della valorizzazione della persona nel processo di sviluppo; tuttavia, fu anche il segretario legato a filo doppio all’esperienza staliniana, colui che sostenne con vigore la barbara repressione sovietica della rivolta ungherese del 1956 e non tollerò alcune legittime forme di dissenso, alienandosi le simpatie, il consenso e l’apporto intellettuale di coloro, e non erano pochi, che già allora avrebbero voluto costruire una via italiana al socialismo, anticipando di vent’anni il capolavoro di Berlinguer che pure – come ricorda spesso Macaluso – è stato “il più togliattiano” fra gli eredi del Migliore.
E ha ragione Macaluso perché, pur con tutti i suoi limiti e stando ben attenti a porre il personaggio nel suo tempo e nel difficile contesto storico in cui si trovò a operare, Togliatti fu il primo a delineare i contorni di un comunismo diverso da quello totalizzante dell’Unione Sovietica: non un partito incentrato sugli apparati ma sul confronto sociale, partendo però da una base di autonomia intellettuale e libero esercizio critico, senza farsi sovrastare dal pensiero della borghesia e, al contrario, rivendicando, fin dal simbolo, la nobiltà del pensiero operaio, tanto da voler rendere “l’Unità” molto più di un giornale bensì il simbolo, il luogo di incontro e condivisione dei ceti subalterni, producendo, al tempo stesso, politica, cultura e un’informazione volta a elevare le masse verso condizioni migliori di vita e di lavoro.
A tal proposito, sarebbe assolutamente sbagliato ascrivere Togliatti alla categoria successiva del movimentismo; eppure, c’era in lui la volontà, diremmo quasi l’ossessione, di rendere il discorso politico e l’elaborazione culturale un tutt’uno, al fine di radicare nel ventre della società un partito che è sempre stato, prima di tutto, uno straordinario movimento di popolo che traeva energia dalla voglia di riscatto degli ultimi e degli esclusi e dal coraggio degli intellettuali di mettere la propria penna e le proprie qualità al servizio della causa comune, di un’idea di comunità solidale in cammino, di un principio di reciproco arricchimento di valori ed esperienze, del desiderio di percorrere insieme un sentiero di progresso e di emancipazione dalle sofferenze e dallo sfruttamento quasi schiavistico imposto con violenza dai padroni.
Per questo, anche dopo la morte di Togliatti, nel PCI hanno sempre trovato spazio figure come l’“eretico” Ingrao e braccianti che avevano lasciato le campagne emiliane per unirsi ai partigiani durante la Resistenza, poveri e professori, socialisti e liberali, tutti impegnati nella realizzazione di quel grande “intellettuale collettivo” di cui parlava Gramsci e che è stato l’anima e il fiore all’occhiello di un soggetto politico che, pur essendo condannato a un destino di opposizione, è riuscito a incidere in maniera notevole sui processi e sulle vicende che hanno accompagnato il Paese.
Pertanto, è lecito affermare che la sua vera debolezza sia sempre stata concentrata sul lato umano, benché sia molto difficile scinderlo dal punto di vista politico e dalle conseguenze di un’avventura personale segnata da due guerre mondiali, lunghi anni di esilio e scelte devastanti, talvolta compiute, talvolta, come nel caso dell’estromissione dei comunisti dal governo imposta a De Gasperi dagli americani in cambio degli aiuti economici del Piano Marshall, subite e mai veramente accettate.
Un uomo solo, dunque, fondamentalmente prigioniero di se stesso, della propria formazione e di una biografia dalla quale era impossibile scappare o non subire condizionamenti, ma al contempo capace di amnistiare i fascisti per evitare vendette e ulteriori spargimenti di sangue nell’immediato dopoguerra e di scongiurare una guerra civile dalle conseguenze imponderabili in seguito al suo ferimento ad opera di un giovane facinoroso, Antonio Pallante, che lo considerava un pericolo per le sorti della Nazione.
Capace di condanne sociali durissime senza, però, mai rinunciare a partecipare e a stare nel vivo delle turbolente fasi della politica italiana di quegli anni, rimane di Togliatti l’impressione di un uomo abituato al comando ma tormentato dai dubbi, dalle incertezze, dai timori, a volte incoerente e tuttavia capace di gettare il seme di un’intuizione senza la quale oggi l’Italia sarebbe senz’altro un paese peggiore. A cinquant’anni dalla morte si può dire tutto di lui ma non che non sia rimasto fedele fino all’ultimo alle proprie idee, pagando per questo il prezzo altissimo di un’incomprensione diffusa, quasi una dannazione, che permane tuttora.