La storia del coraggio di Giusy, che ha detto no agli uomini che la volevano schiava. Di [Michela Mancini]
È accaduto a Rosarno, di nuovo. Una donna che decide di parlare, di nuovo. La fuga dalla Calabria in località protetta insieme alle sue tre bambine, di nuovo. La ‘ndrangheta, nuovamente.
Questa volta, però, le parole non si sciolgono e soffocano nell’acido, come accadde nel 2011 alla testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, il cui corpo venne trovato senza vita nella villetta dove viveva con i suoi genitori recentemente condannati insieme al fratello e l’avvocato Vittorio Pisano.
La storia di Giuseppina Multari, sotto protezione dal 2006, ha un finale diverso. Le dichiarazioni rese dalla donna alla Dda di Reggio Calabria hanno permesso la scoperta delle armi da guerra della cosca dei Cacciola e di un bunker che aveva ospitato il boss Gregorio Bellocco. Ieri mattina all’alba a Rosarno, in Germania e in Olanda, grazie alla testimonianza di Giuseppina, sono state arrestate sedici persone per traffico internazionale di droga. Ma questo non è l’unico capo di imputazione, ce n’è un secondo: terribile.
In manette sono finiti gli aguzzini di Giuseppina, quelli che l’hanno ridotta a vivere in “condizioni di schiavitù”. L’ipotesi di reato è stata accolta dal gip di Reggio Calabria, Antonio Scortecci, su richiesta del pm della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti. Il finale è diverso, sì, ma l’incipit di questa storia è scritto con le stesse parole che hanno raccontato la vita di altre testimoni di giustizia calabresi, una ferita – ora più che mai – aperta nel cuore della ‘ndrangheta.
La storia. Anche per Giuseppina, come per Cetta Cacciola e per Giusy Pesce, il matrimonio arriva presto. A sedici anni conosce Antonio Cacciola, dopo quattro anni si sposano. Un’unione voluta per amore, un amore che tuttavia non è bastato: Antonio, dopo un primo periodo di apparente serenità, comincia a soffrire di depressione. Beve. Alza le mani alla moglie. La tradisce.
A novembre del 2005, Antonio si suicida. Giusy racconterà agli inquirenti: «Devo precisare che mio marito soffriva di depressione, cosa che i suoi familiari si ostinavano a negare […] Durante i momenti di crisi, in cui egli si dava anche all’alcool, avveniva che mi picchiasse o che minacciasse che si suicidasse. In quelle circostanze io cercavo di essere vicinissima a lui e nei momenti in cui si allontanava di casa, lo perseguitavo letteralmente con il telefono, cercando di evitare che facesse sciocchezze. Voglio anche aggiungere che mio marito, nelle situazioni di normalità era una persona estremamente affettuosa, che si pentiva sinceramente di quanto aveva fatto nei momenti di ebbrezza».
Un pentimento sincero che dava la forza a Giusy di continuare a sopportare, quella stessa forza che le è venuta a mancare dopo la morte del marito. La famiglia Cacciola la accusa da subito di essere colpevole del suicidio di Antonio. Giusy racconta agli inquirenti della sera del suicidio: «[…] mio suocero, io ero da sola con le bimbe, mi prende per le braccia mi scuote e dice se mio figlio si è ucciso per te, ammazzo te e tutta la tua famiglia». Da quel giorno, la vita per Giusy non è più vita.
«Da quel momento la situazione per me è diventata assolutamente invivibile – dirà ai magistrati. Non potevo uscire liberamente di casa, ma solo chiedendo il permesso ai miei suoceri o ai miei cognati che mi avrebbero dovuto accompagnarmi; non mi si rivolgeva la parola; venivo impedita anche di curarmi, nel senso che erano loro a stabilire quale medico e come avrebbero dovuto visitarmi».
Giusy viveva in casa con i cognati e i suoceri. Erano loro a tenere le chiavi del portone. La notte l’abitazione rimaneva chiusa, e lei era segregata dentro. Non poteva uscire se non per andare a trovare il marito al cimitero, ma doveva comunque essere accompagnata dalle cognate. Non poteva andare a trovare la sua famiglia. Non le era permesso neanche portare le bambine a scuola. Una di loro – racconterà la madre di Giusy ai magistrati – voleva che fosse la madre ad accompagnarla, se ne era lamentata con la maestra: per questo verrà chiusa dagli zii in cantina.
A Giusy le bambine cercheranno di toglierle più volte. La donna non osava nemmeno chiedere le chiavi di casa per timore di perdere le sue figlie: «Io stavo zitta, io subivo in silenzio! […] cosa dicevo ormai, cosa . io non ce la facevo più, cosa dovevo dire, io mi ero arresa, quella non era vita, quello era sopravvivere, io avevo solo quelle creature e basta».
Il coraggio e la ribellione. Giusy non regge. A febbraio del 2006 Giusy raggiunge il lungomare di San Ferdinando. Scende verso il mare e si lancia nell’acqua. Si rende conto in tempo che non può abbandonare le bambine. Torna indietro e chiama il fratello Angelo con il cellulare che aveva lasciato nel giubbotto – abbandonato sulla sabbia. L’uomo la soccorre e la porta in ospedale. Le promette che l’avrebbe aiutata a liberarsi della famiglia Cacciola e la saluta, dicendole che l’indomani sarebbe andato a trovarla. Da quella sera, di Angelo Multari si perderanno completamente le tracce. L’uomo scompare nel nulla. Sua madre non avrà nemmeno un corpo su cui posare un fiore. Una volta terminata la degenza in ospedale a Giusy verrà proibito di andare a stare a casa dei suoi genitori. Tornerà reclusa in casa Cacciola.
Una casa diventata l’inferno, in cui la testimone aveva un solo luogo dove trascorrere il suo tempo in pace. Confesserà: «Un pezzettino di terra appartato là dove non c’era nessuno all’infuori degli animali, e andavano spesso, punto uno perché le bambine uscivano di casa, anche per andare in quell’angolino con la loro mamma; punto numero due perché c’era un animale, c’era un cavallo, e quella cavalla era come se fosse l’unico essere vivente, l’unica persona, meglio di una persona, per essere animale, però l’unico a capirmi, parlavo solo con Margherita, la cavalla, perché le altre parole era meglio tenersele dove stavano».
Parole che nel settembre del 2006 riempiranno una lettera che Giusy darà al padre che – seppur terrorizzato dalle possibile ritorsioni – la consegnerà ai carabinieri. Da allora la donna è sotto protezione con i genitori e le tre bimbe. Ha deciso di raccontare ogni cosa, anche gli affari criminali della famiglia Cacciola. Un racconto che si è tradotto ieri in un un’ordinanza di custodia cautelare che riguarda il suocero di Giusy, Domenico Cacciola, e il cognato Gregorio. E ancora Maria e Vincenzo Cacciola, Jessica Oppedisano, Teresa D’Agostino. Imputati per sequestro di persona e riduzione in schiavitù.
L’inchiesta. Carte giudiziarie che raccontano la resistenza, il coraggio e la salvezza di una donna: la stessa che aveva scelto Maria Concetta Cacciola quando aveva deciso di scappare da Rosarno per collaborare con la giustizia in nome dell’amore che la legava ai suoi tre figli. Cetta è tornata indietro ed è morta. Di pochissimi giorni fa la sentenza – con rito abbreviato – espressa dal gup Davide Lauro del tribunale di Reggio Calabria. Il giudice ha sposato in pieno la tesi accusatoria avanzata dai pm Alessandra Cerreti, Giulia Masci e Giovanni Musarò, e ha condannato a 4 anni e 10 mesi di carcere Anna Rosalba Lazzaro, a 5 anni e 8 mesi Giuseppe Cacciola e a 6 anni e 6 mesi di reclusione Michele Cacciola per violenza privata aggravata dalle modalità mafiose per aver obbligato la donna a recedere dal percorso di collaborazione intrapreso. Lo scorso febbraio, tutti e tre erano stati raggiunti da una prima condanna dalla Corte d’Assise di Palmi per maltrattamenti.
Ad essere condannato adesso è anche l’avvocato Vittorio Pisani, a cui il gup ha inflitto 4 anni e 6 mesi di reclusione. Il legale è accusato – insieme al collega Gregorio Cacciola, che ha scelto di difendersi nel procedimento con rito ordinario – di aver curato la falsa confessione con cui Cetta, pochi giorni prima di morire, aveva ritrattato le dichiarazioni fatte ai magistrati contro il clan Bellocco. Maria Concetta, come Giusy, come tante altre, ha scelto la vita. In nome dei figli. E per tornare dai figli è morta. Grazie a lei è iniziato un nuovo percorso a Reggio Calabria. Lì è stato firmato un nuovo protocollo giudiziario nato per consentire alle collaboratrici di giustizia di portare immediatamente i figli in regime di protezione. Maria Concetta non c’è più, ma tante donne ci sono. E sono vive.