Questa volta non è l’inquadratura incerta di un telefonino, ma un set preparato con cura. James Foley, in ginocchio, è addirittura microfonato. Quando l’inquadratura stacca sul suo aguzzino, tutto coperto e vestito di nero, il filo del microfono è sparito sopra la veste arancione. E c’è una seconda camera laterale. Un messaggio all’America, ripreso e montato da professionisti, che lo caricano su Youtube e lo postano su Twitter. Perché i social, adesso, sono pane anche per i denti dei terroristi. E quelli dell’Isis sembrano masticarlo bene. Venti minuti, il tempo di fare il giro del mondo. Poi, il video scompare. Non è introvabile, ma non è più visibile.
La notizia della barbara esecuzione del reporter americano, rapito in Siria due anni fa, ha scioccato il mondo intero. Cento milioni di dollari: pare fosse questo il riscatto che Washington non ha pagato per tentare, al contrario, secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, un blitz delle forze speciali, poi fallito. Ma al di là dell’eterno conflitto ideologico sul trattare o non trattare con i terroristi, o di quello politico sull’interventismo militare in un Iraq dilaniato dalla crisi umanitaria, un’altra notizia nella notizia si fa largo fra le pieghe di questa storia, tra colossi della comunicazione, libertà di informazione, giornalisti e semplici utenti del web: chi ha deciso di censurare il video in rete e perché?
Tutte le televisioni del mondo hanno mostrato solo le immagini del discorso di Foley e delle successive minacce del boia, che regge un coltello e si rivolge direttamente al Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Senza avallare gli estremi di chi avrebbe voluto censurare anche i singoli fermi immagine, tutti i giornalisti si troveranno d’accordo nel sostenere che non sia diritto di cronaca mostrare una decapitazione. Non c’è bisogno di assistere ad un assassinio feroce per rendersi conto della realtà e per condannare l’atto terroristico in sè. Chi ha visto le sequenze finali del video, prima che venisse rimosso, inoltre, sostiene che sia montato e non si veda chiaramente l’uccisione se non per qualche frame. E pare che sia ancora circolante e visibile: non esiste solo Youtube. Ci sono i torrent e ci sono i siti pirata di streaming.
Ma è Youtube, cioè Google, a rappresentare il monopolio. E Google ha deciso di rimuovere il video, perché ha una politica chiara nei termini e nelle condizioni d’uso: i contenuti violenti la vìolano, per cui vengono rimossi, ma Twitter, ad esempio, non ha vincoli chiari in questo senso. Si legge sul sito:
“All Content, whether publicly posted or privately transmitted, is the sole responsibility of the person who originated such Content. We may not monitor or control the Content posted via the Services and, we cannot take responsibility for such Content. Any use or reliance on any Content or materials posted via the Services or obtained by you through the Services is at your own risk”.
Traducibile in una riga: non siamo responsabili dei contenuti postati. Allora perché sono stati minacciati di sospensione dell’account coloro che pubblicavano o retwittavano il video di Foley? In questo caso la decisione sembra nobile, ma qual è il criterio con il quale una piattaforma di condivisione mondiale di contenuti, non un produttore o un editore, decide cosa far vedere o cosa no? Youtube è un intermediario, non può essere responsabile dei contenuti pubblicati dai suoi utenti, motivazione per la quale la Corte Suprema americana gli ha dato ragione nell’ultima estenuante battaglia legale con Viacom (proprietaria di Mtv), che lo aveva citato in giudizio per la violazione dei diritti sulle immagini musicali. Dunque non è obbligato ad intervenire. Eppure a volte lo fa, ed è solerte. Quando? Cosa è definito violento e raccapricciante, al punto da esser censurato? E come potrebbe decidere un’autorità super partes, quando in pochi minuti un’immagine raggiunge milioni di utenti, in tutto il mondo?
E come porsi, dunque, ad oggi, di fronte all’influenza effettiva dei giganti della comunicazione, mediata e non prodotta, che scelgono esattamente come farebbe un direttore di giornale?